Nazzareno Ciofo

Dalle mani della gentilissima Rossana Ciofo abbiamo ricevuto molti preziosi documenti riguardanti l’eroico papà Nazzareno, ne pubblichiamo la gran parte lasciando che ad introdurli siano le stesse parole della figlia:

“Mio padre Nazareno fu combattente durante la Seconda Guerra Mondiale nei Balcani con la Divisione Venezia e partigiano, dopo l’8 settembre del 1943, facendo parte della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi che operò in particolare nel Montenegro, ed in tale contesto, fu gravemente ferito in combattimento partecipando alla lotta contro i nazi-fascisti.

A seguito della grave ferita riportata alla gamba sinistra mio padre fu costretto al rimpatrio: lasciò Gacko (Bosnia) il 16 settembre 1944 con un aereo da trasporto che faceva ritorno in Italia dove sopportò molti interventi chirurgici e ben quattro anni di ingessature, riuscendo infine a deambulare solo tramite scarpe ortopediche.

All’indomani del rientro in Patria, non appena le sue condizioni fisiche lo resero possibile, collaborò per qualche tempo con codesta Associazione nell’assistere i reduci mutilati ed invalidi di guerra nei loro molteplici bisogni sia di pratica sussistenza che per gli aspetti burocratici e amministrativi. Successivamente svolse attività lavorativa presso la Direzione Generale dell’INPS a Roma dal 1948 fino al suo pensionamento (1970).

Dal dicembre 1979, per alcuni anni a seguire, mio padre ha rivestito la carica di Presidente della Sezione di Roma dell’Associazione Veterani e Reduci Garibaldini “Giuseppe Garibaldi”.

Considerato l’intenso rapporto intrattenuto per tutta la vita da mio padre Nazzareno con l’ANMIG e certa di onorare la sua memoria, consegno a codesta Associazione talune riviste a lui appartenute, all’interno delle quali sono presenti articoli su quei tragici avvenimenti bellici, tuttavia gloriosi, che narrano episodi significativi di cui mio padre è stato protagonista.

Consegno inoltre copie di altre documentazioni relative a Concessioni, Diplomi di Onore ed Onorificenze nel tempo attribuite a mio padre dallo Stato Italiano, dallo Stato Jugoslavo, per gratitudine e riconoscenza, e da altre Istituzioni pubbliche ed Associazioni combattentistiche.

Questa mia iniziativa al fine di conservare memoria per le future generazioni dei valori di libertà, democrazia e spirito di sacrificio che sempre furono perseguiti da mio padre e profusi in me attraverso i suoi tanti racconti di quegli anni tribolati e soprattutto attraverso i suoi insegnamenti ed il suo stile di vita.

Ringrazio l’Anmig per la disponibilità mostrata nell’accogliere e preservare ricordi a me tanto cari, che sono certa troveranno la loro giusta collocazione nella cornice di memorie così uniche e rappresentative del nostro Paese.

Con riconoscenza”

Rossana Ciofo

 

Camicia Rossa 1979 – Testimonianze dirette – Prigioniero dei Cetnici di Nazzareno Ciofo

Nazzareno Ciofo è il Presidente della Sezione di Roma al quale dobbiamo questo ricordo della lotta partigiana in Jugoslavia: una delle tante avventura occorse ai combattenti della “Garibaldi”.

Ringraziamo l’amico Ciofo e ci auguriamo che il suo esempio abbia seguito e ci dia la gioia di altre testimonianze che andranno ad arricchire la pubblicistica sulla “Garibaldi”.

Era una notte del settembre 1944, mentre rientravo al mio reparto, dopo essere stato di scorta armata ad un carro carico di feriti partigiani diretti in ospedale, quando caddi in una imboscata cetnica. Dopo avermi disarmato e spogliato delle mie misere cose, fui condotto nel loro accampamento. Appena giunto, notai fra gli altri una donna, anche lei prigioniera. Ci scambiammo qualche parola e fra l’altro lei mi disse di essere la moglie di un noto partigiano della zona. In seguito, non ebbi più occasione di rivederla perché di lei si occupò il reparto che l’aveva catturata. Dopo il primo sbigottimento, cercai di riordinare le idee, ma per quanto provassi ad essere ottimista, credetti che per me l’odissea garibaldina stesse per finire.

Invece i cetnici, dopo essersi consultati, decisero di portarmi con loro sino a Gacko dove c’era un presidio tedesco. Naturalmente in quella cittadina avrei trovato certamente la morte, perché sapevo benissimo che i tedeschi fucilavano quasi sempre i partigiani della “Garibaldi” che cadevano nelle loro mani.

Durante il lungo peregrinare sulle montagne del Montenegro, venni sottoposto a duri maltrattamenti e spesso la fame mi spingeva a raccogliere e mangiare i rifiuti che i miei aguzzini gettavano: qualche volta mi negarono persino l’acqua da bere, con la motivazione che in quella zona scarseggiava. Quando la sera si sostava per il pernottamento, il comandante, con cinico sadismo, ordinava ad alcuni suoi uomini di spingermi a ridosso della montagna per fucilarmi. Per mia fortuna però ogni volta veniva rimandata l’esecuzione.

Indubbiamente non era intenzione del comandante farmi uccidere, almeno per il momento, ma era evidente l’odio che nutriva per me che ero un partigiano. Infatti non perdeva mai l’occasione per dimostrarlo ed era chiaro che il suo sadico comportamento aveva l’indubbia finalità di indebolire il mio morale.

Il quinto o sesto giorno dalla mia cattura, una mattina il reparto venne attaccato da una formazione partigiana jugoslava, tuttavia io che ero sempre controllato a vista, non potei fare nulla per sfuggire ai miei aguzzini. In quella occasione i cetnici subirono forti perdite e i pochi scampati riuscirono a porsi in salvo raggiungendo un bosco poco lontano, dove, medicati i feriti, cercarono di riorganizzarsi alla meglio. Ricordo che per raggiungere la vegetazione, dovemmo attraversare un tratto di territorio allo scoperto, sotto le raffiche delle armi partigiane; e poiché io tentavo di rimanere indietro, cercando di eludere la loro sorveglianza, fui percosso e poi spinto con le armi sino al limitare del bosco.

Ancora oggi tra le ombre del passato, rivedo chiaramente quegli uomini cadere uccisi in ritirata. Cessato lo scontro, quando il comandante cetnico mi vide tra i superstiti, fu talmente irritato dal fatto che io non avevo perso la vita e , ancora una volta, anche in quella occasione, non disdegnò di minacciarmi con le armi. Altri poi sadicamente mi facevano osservare che molti dei loro amici erano morti o feriti mentre io, che comunque fossero andate le cose dovevo morire, l’avevo ancora scampata. Da quel momento non fui più tollerato, il loro odio aumentò e sempre più spesso fui maltrattato e percosso con il calcio dei loro fucili. A quel punto ero deciso a tentare l’impossibile pur di sfuggire alle loro persecuzioni, anche perché ci eravamo molto avvicinati alla cittadina di Gacko che era presidiate da truppe tedesche, dove imminente sarebbe stata quasi certa la mia fine. Trascorsi un paio di giorni senza altre sorprese (…) arrivammo sulle colline di Gacko ove la compagnia si fermò unendosi ad altri reparti cetnici, i quali avevano preso posizione di difesa del centro abitato prendendo un attacco partigiano alla città, che stava per essere abbandonata dal presidio tedesco.

Infatti, durante la notte seguente, improvvisamente i partigiani sferrarono l’offensiva ed io, nel chiarore delle esplosioni, vedevo distintamente i miei compagni avanzare incuranti della reazione nemica. In quel momento ero talmente preso dal pensiero della mia imminente liberazione, che non mi curavo più della battaglia che si stava sviluppando intorno a me: anzi, nel vedere i cetnici cadere uccisi, mentre tentavano di ripiegare, sentivo nell’animo un senso di profonda soddisfazione, tante erano state le sofferenze patite per causa loro.

La mia mente si posò per un istante su uno die miei carcerieri: era molto giovane ed umano, ricordai che in parecchie occasioni, assai critiche per me, egli mi fu di grande aiuto e quando era stato possibile mi aveva persino offerto del tabacco. Ancora oggi sono certo che senza il suo appoggio non avrei avuto la forza di resistere. Mentre ero assorto in questi contrastanti pensieri, udii le voci di alcuni cetnici che mi intimavano di seguirli. Ma io non mi mossi: quasi non sentivo o non volevo sentire quelle parole che ancora una volta volevano strapparmi la libertà.

A svegliarmi da quel torpore, fu l’acuto dolore provocato da una raffica di arma da fuoco che mi colpì alla gamba sinistra. Capii chiaramente che i cetnici intendevano uccidermi prima di ritirarsi, ma anche in quella occasione, così disperata, sfuggì loro l’opportunità di porre fine alla mia vita. Pochi minuti dopo fui raggiunto dai partigiani che avanzavano e ancora una volta corsi pericolo, perché in quelle condizioni ed in tali circostanze mi fu difficile spiegare la mia posizione.

Infine, riconosciuto come partigiano, fui medicato alla meglio da alcune drugarizze e poi trasportato in una casa adibita ad ospedale. Finalmente dopo circa dieci giorni finì il mio calvario. Ormai ero libero e calmo, anche se la ferita riportata alla gamba era certamente molto grave. Infatti ero stato colpito da due pallottole esplosive ed una di esse era scoppiata nell’interno dell’arto frantumando le ossa. In quella specie di ospedale dove ero stato trasportato, ad approntarmi le prime cure fu il dott. Silvani. Ricordo che svolgeva il suo delicatissimo compito senza sosta e con tanta umanità. Egli aveva pochissimi mezzi a disposizione e malgrado ciò riusciva a fare miracoli. Alcuni giorni dopo fui rimpatriato, per via aerea, assieme ad altri feriti: decollammo da un campo di fortuna apprestato alla meglio per lo scalo dei materiali bellici provenienti dall’Italia. Giunto a Bari, mi ricoverarono in un ospedale alleato, dove fui sottoposto a vari interventi chirurgici. Poi a Roma e finalmente a casa.

Ho rivisto il professor Silvani dopo più di trent’anni, in occasione di una sua venuta a Roma per partecipare ad una riunione del consiglio di Presidenza della nostra Associazione. Ho provato una grande commozione nel rivedere l’uomo che con la sua opera, ma soprattutto con la sua profonda umana abnegazione, con mezzi veramente inadeguati, più di trent’anni fa, riuscì ad impedire che la mia gamba venisse amputata.

Nazzareno Ciofo

Camicia Rossa – Anno VI – N.2 – Giugno 1987 – Riconoscenza e gratitudine nelle decorazioni jugoslave consegnate a 450 reduci della “Garibaldi”

Nel mese di marzo, a Firenze il 15 e a Torino il 23, due solenni cerimonie hanno rievocato il contribuito dato alla Resistenza Jugoslava dalla Divisione Garibaldi.

La consegna di 450 onorificenze a garibaldini e vedove di garibaldini simboleggia il riconoscimento sempre vivo della vicina nazione per gli uomini che scrissero autentiche pagine di eroismo in quei territori.

Uno ad uno, gli insigniti si sono presentati dinanzi al tavolo della presidenza dove l’Ambasciatore Ante Skataretiko, a nome del suo Governo, ha consegnato questi segni che vogliono premiare il coraggio personale dimostrato in tempi ben duri e in circostanze assai difficili.

Il fatto che sia stato il più alto rappresentante della nazione jugoslava in Italia ad insignire i reduci delle ambite onorificenze, ha contribuito ad elevare al massimo livello il significato ed il valore del tangibile riconoscimento dimostrato a coloro che, a prezzo di enormi sacrifici, hanno onorevolmente contribuito alla liberazione ed alla libertà di quel popolo.

Nel suo intervento, preliminare alla consegna, l’Ambasciatore, dopo essersi detto onorato e lieto di poter presenziare a quelle riunioni garibaldine, ha affermato: “Sono passati più di quaranta anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla liberazione dei nostri due Paesi, ma sono certo che voi dividete la mia opinione che il tempo passato non toglie nulla né ai meriti di allora, sempre vivi nei nostri ricordi e nei nostri pensieri, né al significato ed al valore di queste onorificenze. È un’occasione veramente felice per un Ambasciatore incontrare nel Paese di accreditazione un numero tanto elevato di amici veri della propria Patria. Nei tempi e nei momenti più difficili, drammatici per la Jugoslavia, Voi, compagni garibaldini, avete ripreso le armi e vi siete messi fianco a fianco con i popoli jugoslavi nella lotta contro il comune nemico, onorando così i valori della gente italiana, nonché la Resistenza e le Forze Armate italiane. Le necessariamente scarne motivazioni riportate nei diplomi relativi alle decorazioni non possono esprimere tutto il coraggio, la devozione e lo spirito di sacrificio, l’altruismo il cameratismo e la solidarietà con la gente jugoslava dimostrati da questi combattenti italiani che, in tal modo, posero anche le autentiche solide basi allo sviluppo dei nostri rapporti di buon vicinato nel dopoguerra.

Una reciproca migliore conoscenza e comprensione ci aiutarono a sormontare molti pregiudizi, a rimuovere molti malintesi e a risolvere molte difficoltà nel tracciare e spianare la strada ai rapporti di buon vicinato e di collabo0razione, arrivando nel 1975 alla firma degli accordi di Osimo.

L’interesse della pace esige da tutti noi l’impegno di trasmettere alle giovani generazioni i valori che sono garanzia di amicizia e di collaborazione”.

Alle parole dell’Ambasciatore ha fatto eco l’intervento del Presidente ANVRG, Gen. Sarlo, che ha espresso il più cordiale saluto e il più vivo ringraziamento alla Presidenza della Repubblica Federativa di Jugoslavia ed in particolare al suo Rappresentante ufficiale, nonché alle Autorità civili e militari che con la loro significativa presenza hanno voluto esaltare il valore spirituale delle cerimonie.

Rivolgendosi agli amici e commilitoni reduci, egli ha affermato che “quella vampata di orgoglio e di emozione propria del momento in cui veniamo insigniti dalle onorificenze, varrà a ricordarci altre vecchie emozioni provate tanti anni orsono;

  • Quell’emozione del 9 settembre 1943, allorchè volontariamente ed unanimemente decidemmo di non arrenderci, di non cedere le armi che la Patria ci aveva dato in consegna, di combattere per l’onore d’Italia;
  • Quell’emozione del 2 dicembre ’43, allorchè combattenti delle Divisioni Venezia e Taurinense ci unimmo per dar vita alla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi che, fianco a fianco con i partigiani jugoslavi, combattè per la liberazione di quella Nazione;
  • Quelle tante dolorose emozioni provate quando vedemmo cadere accanto a noi molti amici e compagni d’arme;
  • Quella grande emozione che provammo il 5 marzo del ’45, allorchè riuscimmo a vedere il mare di Dubrovnik, ad imbarcarci su quelle navi che troppo lentamente solcavano l’Adriatico, a scorgere da lontano quel porto di Brindisi nel quale ci sembrò di vedere concentrate tutte le regioni d’Italia, tutte le nostre famiglie, tutte le nostre case.

Insieme a queste tante emozioni, noi sentiremo anche una vampata di orgoglio:

  • Orgoglio per la consapevolezza di quanto si dimostrarono giuste le decisioni che avevamo preso il 9 settembre del ’43;
  • Orgoglio per la coerenza con cui abbiamo saputo legare la nostra volontà con il nostro comportamento;
  • Orgoglio per l’esatta interpretazione che abbiamo saputo dare alle espressioni, solo apparentemente retoriche, di “onore” e di “dovere”;
  • Orgoglio per la chiara, lampante, inequivocabile e coerente dimostrazione del nostro attaccamento alla patria, del nostro spirito di fratellanza fra i popoli, del nostro amore per la libertà”.

Il Presidente ha concluso con un toccante appello agli amici e commilitoni della Garibaldi: “Chiedo a tutti voi che nel momento in cui riceverete la ricompensa, ciascuno pensi di avere accanto a sé un amico o un commilitone caduto e dedichi a lui la ricompensa ricevuta, perchè ancora più di noi Egli l’avrebbe meritata, avendola pagata con la vita”.

Il significato profondo e importante delle due cerimonie è stato posto in risalto dagli interventi del vicepresidente della Provincia, a Firenze, e del vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte, a Torino. Le istituzioni repubblicane si sono dimostrate attente ai temi proposti in quegli anni che rappresentarono per l’Italia e la Jugoslavia l’affermazione di una nuova coscienza civile e politica.

 

Tratto da “Patria indipendente” quindicinale della Resistenza degli ex-combattenti – Anno XXXI – N. 14 – 12 settembre 1982

A Berane con la Divisione “Venezia” di Nazzareno Ciofo

A distanza di 39 anni è ancora vivo in me il ricordo del momento storico dell’annuncio dell’armistizio. Era a Berane, una cittadina del Montenegro, ed ero in forza alla 76ª Compagnia Artiglieri della Divisione di Fanteria “Venezia”, addetto al carro-officina del reparto.

Non mi lasciai prendere da facili ottimismi e mi resi subito conto della nuova situazione, soprattutto nei confronti della gente del luogo che chiaramente ci era ostile. Anche i tedeschi si fecero sentire con il lancio di manifestini di propaganda e con bombardamenti aerei. Una mattina, alle prime luci dell’alba, ci accorgemmo che il presidio di Berane era accerchiato da migliaia di Cetnici (nazionalisti montenegrini), che, senza ombra di dubbio, dimostravano chiaramente di volere le nostre armi per combattere contro i partigiani di “Tito”.

Non sono né uno scrittore né uno storico ma mi affido al ricordo con lo spirito di un garibaldino che dopo l’8 settembre fece parte della gloriosa Divisione partigiana “Garibaldi”. Di quei drammatici giorni ricordo che insieme al Ten. Pelagalli, responsabile del carro-officina del reparto, dove io stesso prestavo la mia opera, ci prodigammo, facemmo l’impossibile per riparare un grosso compressore abbandonata da chissà quale ditta italiana nei pressi del nostro carro-officina. Portato a termine, con successo, il lavoro, ci unimmo ad altri genieri e col prezioso ausilio del compressore cominciammo subito a lavorare per il livellamento di un vasto campo allo scopo preciso di trasformarlo il più presto possibile in un campo aviazione di fortuna.

Infatti, come era stato previsto, ci fu di grande utilità, perché dopo un paio di giorni vi atterrò un aereo proveniente da Bari portando ordini e documenti diretti al Comando di Divisione. Purtroppo poco dopo piombò sul campo un caccia tedesco che lo mitragliò danneggiandolo però solo leggermente.

Subito dopo il pilota del nostro aereo, il Ten. Pelagalli ed il sottoscritto andammo a constatare i danni subiti e poiché era stato danneggiato il condotto dell’alimentazione lo smontammo per ripararlo in officina.

A lavoro ultimato, mentre ci accingevamo a rimontare il pezzo, altri due caccia tedeschi comparvero improvvisamente nel cielo accanendosi ancora sul nostro aereo, completando l’opera che avevano iniziato e distruggendolo completamente. Ci salvammo riparandoci dietro le ruote d’acciaio del compressore, che per nostra fortuna sostava ancora ai bordi del campo, coprendoci dal mitragliamento degli aerei diretto anche verso di noi. Ricordo ancora gli ultimi giorni di permanenza a Berane, prima che la nostra unità prendesse la via delle montagne per iniziare la lotta contro il nazifascismo.

Fu allora che presi l’iniziativa di costruire delle grosse bombe in lamiera di ferro, grazie ai mezzi reperiti nel carro-officina, all’aiuto dei miei compagni e soprattutto la tritolo che era in giacenza nella polveriera del reparto.

Nei combattimenti che seguirono, le usammo sia noi che i partigiani jugoslavi ed ebbero successo anche contro mezzi di trasporto tedeschi, per la potenza dirompente che sprigionavano.

Forse è interessante spiegare, anche sommariamente, le caratteristiche tecniche della bomba per comprendere l’innata capacità degli italiani a risolvere con pochi mezzi i più difficili problemi. Si immagini un cilindro costruito in lamiera di ferro, dalle dimensioni di dodici centimetri di diametro e quindici di altezza, ripieno di tritolo nella parte inferiore e nell’altra metà di ferraglie di piccole dimensioni: il cilindro era predisposto alla sua sommità per l’innesto di una bomba a mano, di formato piccolo, come la “romanina”, e alla base per il fissaggio di un manico di legno molto solido che serviva per lanciarlo. Una volta scagliata sul bersaglio, l’esplosione della piccola bomba provocava a sua volta lo scoppio della grande causando enormi danni su tutto ciò che colpiva.

Nei giorni successivi giunse l’ordine di lasciare il presidio di Berane per raggiungere altre mete attraverso le montagne del Montenegro, affrontando spesso aspri combattimenti contro i nazifascisti. Fu una lunga odissea.

Per me finì dopo circa un anno, il 2 settembre 1944, nei pressi di Gasko in Erzegovina, quando rimasi ferito ad una gamba da due pallottole esplosive per cui, dopo le prime cure fui trasportato in barella, dai miei compagni, per un lungo tragitto, sino al campo di aviazione da dove in aereo raggiunsi l’Italia.

 

Patria Indipendente – Numero 17 del 3 novembre 1985

Nazzareno Ciofo, di Piansano (Viterbo), classe 1920. Geniere della “Garibaldi”, già effettivo alla 76ª compagnia artieri della Divisione “Venezia”, mutilato di guerra, vivente.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con grave rischio della propria vita, costruiva grosse bombe anticarro, ripiene di tritolo e ferraglie, che trovarono largo impiego contro mezzi di trasporto tedeschi.

Il 2 settembre 1944, catturato dai cetnici mentre svolgeva attività operativa presso la 29ª Divisione Jugoslava, venne condotto a Gacko (Erzegovina) dove fu sottoposto a maltrattamenti e minacce di morte. Nella stessa giornata un improvviso e violento attacco di partigiani jugoslavi ed italiani (II Brigata “Garibaldi”), costrinse il nemico ad una precipitosa ritirata. I cetnici, per non perdere il “prigioniero”, che si attardava a seguirli, lo colpirono con una raffica di pallottole esplosive che gli frantumò l’osso della gamba sinistra.

Ciofo subì sul posto un primo intervento chirurgico, ma per la gravità della ferita fu costretto al rimpatrio; lasciò Gacko il 16-9-1944 con un aereo da trasporto che faceva ritorno in Italia. Atterrato a Bari fu ricoverato all’ospedale militare della città e poi in altri luoghi di cura, dove la degenza si protrasse per altri due anni.

A questa triste odissea del geniere Nazzareno Ciofo intendo accumunare tanti altri compagni della Divisione “Garibaldi”.

Angelo Graziani

 

Patria Indipendente n.8 del 21 settembre 2008 – In Jugoslavia con la Divisione partigiana “Garibaldi”

“….e il mio papà costruiva bombe anticarro”

di Rossana Ciofo

È deceduto in data 7 aprile 2008, all’età di 87 anni. Mio padre, Nazzareno Ciofo, nato a Piansano (Viterbo) il 24 giugno 1920, combattente della Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” e mutilato di guerra.

Chiamato alle armi all’avvio del secondo conflitto mondiale, fece parte della Divisione “Venezia” che inizialmente operò sul fronte greco-albanese e successivamente nei Balcani ed in particolare negli impervi territori della Bosnia, dell’Erzegovina e del Montenegro.

Furono quelli, per i soldati italiani, anni tragici e dolorosissimi, segnati da stenti indicibili e terribili sofferenze, attanagliati dalla fame, dal gelo e dalle malattie, costantemente in pericolo di vita, nel corso dei quali ai già orribili eventi bellici si mescolavano le vicende politiche e sociali di quelle terre straniere non solo coinvolte nel conflitto ma teatro di lotte interne fra le stesse parti jugoslave belligeranti.

All’indomani dell’armistizio (8 settembre 1943) le Divisioni “Venezia” e “Taurinense”, forti di circa 22.000 uomini, seppero resistere eroicamente all’invito alla resa incondizionata imposto dai tedeschi e dai loro alleati fascisti ed il 2 dicembre 1943 costituirono la Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” collaborando alla lotta di liberazione del popolo jugoslavo per vincere, in nome della Patria lontana, la propria stessa Guerra di Liberazione e per riaffermare i più alti valori di libertà, democrazia e giustizia sociale.

Undicimila i caduti accertati ed i dispersi, pari al 50% degli effettivi, l’altra metà i sopravvissuti, gran parte die quali rimpatriati per ferite o malattia, fra cui mio padre Nazzareno.

È per me motivo di orgoglio trarre questo spunto dal libro Soldati Italiani nella Resistenza in Montenegro (pag.149) scritto dal Gen. Angelo Graziani, che proprio in questi giorni è purtroppo venuto a mancare, e pubblicato nel 1992 in collaborazione con la Rivista dell’ANPI Patria Indipendente.

Nell’opera, dedicata come numerosi altri testi (1) a quelle vicende tragiche sebbene gloriose, l’autore, all’epoca anch’egli della Divisione Garibaldi col grado di Capitano, ripercorre le gesta dei militari italiani in Montenegro dall’estate 1943 alla primavera 1945.

In effetti mio padre in Italia subì altri interventi chirurgici alla gamba ferita e, al fine di consentire la ricostruzione del callo osseo da sotto al ginocchio fino alla caviglia, essendo stata la tibia completamente distrutta dalle pallottole esplosive, restò ingessato per quattro lunghi anni.

Fortunatamente, sebbene con l’ausilio di scarpe ortopediche, di cui non potè più fare a meno, fu poi in grado di riprendere lentamente a camminare e quindi condurre un’esistenza piena ed autosufficiente malgrado l’oggettiva limitazione fisica.

Dallo Stato italiano gli furono riconosciute quattro Croci di Guerra al Valor Militare e, in data 17 febbraio 1986, alla presenza del Presidente Pertini, fu insignito dalla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia di decorazione al valore con l’Ordine della Fratellanza e l’Unità con Serto d’Argento.

Lo stesso Stato jugoslavo, in segno di riconoscenza e gratitudine, già nel marzo 1981, gli aveva conferito altra medaglia per il “contributo prestato alla comune vittoria sul fascismo e per l’avvicinamento e l’amicizia fra i popoli”.

Nel novembre 1977 gli fu attribuita dall’Associazione Veterani e Reduci Garibaldini la Stella al Merito Garibaldino istituita da Giuseppe Garibaldi nel 1863 “per la fedeltà agli ideali della tradizione garibaldina”.

Di detta Associazione, all’inizio degli anni ’80, ricoprì l’incarico di Presidente della Sezione di Roma, con sede in Porta San Pancrazio, continuando a coltivare, tramite l’attività ivi svolta, gli ideali di libertà e democrazia che ispirarono durante il secondo conflitto mondiale le gesta della Divisione “Garibaldi”.

Dal 1948 al 1970 prestò lodevole servizio presso gli Uffici della Direzione Generale dell’INPS in Roma dove fu sempre apprezzato per la sua responsabilità e competenza.

Nel 1949, ancora sofferente per la ferita e deambulante a fatica, si unì in matrimonio con mia madre Assunta, che sempre lo sostenne e con la quale ha condiviso per cinquantanove anni di vita in comune, e nel febbraio del ’50 nacqui io, Rossana, sua unica figlia, cui volle trasmettere, con la sua personale testimonianza di quegli eventi tragici e dolorosi ma vissuti eroicamente per la libertà e l’onore del nostro Paese, i più nobili valori della Resistenza che restano sempre attuali, da preservare e difendere anche in memoria di quanti non hanno più fatto ritorno.

Unico e bellissimo è stato il rapporto con mio padre, a cui mi univano molti aspetti del carattere ed altrettanti ideali ed aspirazioni. Era amorevole e disponibile ma dignitoso, gioviale tuttavia impegnato, fu per me un compagno di giochi ed amico oltre che maestro di vita.

Sono felice di avergli potuto dare la soddisfazione di vedermi conseguire nel 1974 la Laurea in Scienze Politiche e più di recente, circa dieci anni fa, superare il concorso presso l’INAIL di Roma, dove sino allo scorso mese di settembre ho prestato attività lavorativa.

Mio padre Nazzareno fu sempre circondato dall’affetto dei suoi familiari e dalla stima di tutti quanti lo conobbero e lo apprezzarono per il suo animo generoso ed attento ai bisogni altrui, per i suoi modi gentili e socievoli, per il suo atteggiamento positivo sempre aperto alla vita.

Nel corso della sua esistenza sopportò con forza e speranza molte malattie anche gravi, confortato dalla Fede che mai lo ha abbandonato, subendo nel tempo ulteriori interventi chirurgici e recuperando tuttavia ogni volta un discreto stato di salute.

Nel dicembre del 2004 fu purtroppo colpito da una grave forma di ischemia cerebrale che fiaccò gradatamente le sue condizioni generali ma non i tratti del suo animo, restato gentile ed affettuoso, sino al recente decesso causato da complicanze da ultimo insorte. Resta ora un incolmabile vuoto appena attutito dalla certezza che ora vive nella pace eterna e veglia ancora su di noi con amore come sempre.

 

DIPLOMI ED ONORIFICENZE CONFERITI A NAZZARENO CIOFO

Diploma d’Onore per l’appartenenza alla Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” in data 13 marzo 1945;

Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito Jugoslavo congedo in data 9 giugno 1945;

Ministero della Guerra Diploma d’Onore in data 26 novembre 1946 quale riconoscimento dell’appartenenza, durante la “Guerra di Liberazione” contro la Germania, alla Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi”;

Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 27 marzo 1951 Riconoscimento della qualifica di partigiani della formazione partigiana divisione “Garibaldi” operante in Jugoslavia ferito in combattimento;

Esercito Italiano n.3 Croci al Merito di Guerra in data 18 marzo 1960;

Ministero della Difesa – Esercito autorizzazione a fregiarsi del distintivo d’onore “ferito in guerra” in data 22 maggio 1965;

Regione Toscana attestato ai Combattenti della Divisione “Garibaldi” in data 9 dicembre 1973;

Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini “Giuseppe Garibaldi” Stella al merito Garibaldino in data 13 novembre 1977;

Presidenza della Repubblica Socialista Jugoslava Diploma e Medaglia “Morte al fascismo – libertà ai popoli” nel 1981 presso l’AMBASCIATA Jugoslava;

Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Sezione Regionale Province del Lazio Diploma al Merito rilasciato alle Formazioni Partigiane all’Estero in data 9 febbraio 1985 – Palazzo Valentini Roma;

Presidenza della Repubblica Italiana Diploma d’Onore al combattente per la libertà d’Italia 1943-1945 in data 13 maggio 1985;

Presidenza della Repubblica Socialista Jugoslava Diploma e Medaglia “Ordine della Fratellanza e l’Unità con Serto d’Argento” in data 17 febbraio 1986 consegnati dall’Ambasciatore Jugoslavo a Firenze – Palazzo Riccardi nel marzo 1987 con foto.