I soci raccontano
Giuseppe Migliorin
Onoriamo la Memoria del Cav. Giuseppe Migliorin, memorialista e storico fiduciario per l'Alto-Vicentino-Malo: era l'ultimo IMI (Internato Militare Italiano) della zona venuto a mancare il 7 novembre 2023. Tantissimi giovani sono cresciuti con i suoi racconti degli orrori della guerra e del lungo internamento nel campo di concentramento nazista di Danzica.
Lo ricordiamo con la sua testimonianza messa in onda per il Ggiorno della Memoria 2021 dall'Assessorato del Comune di Malo, che assieme all'ANEI di Vicenza ha ricordato gli IMI.
https://youtu.be/IiOQAWQByQM?si=igDHBcLB2pK3W4o0
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Nazzareno Ciofo
Dalle mani della gentilissima Rossana Ciofo abbiamo ricevuto molti preziosi documenti riguardanti l'eroico papà Nazzareno, ne pubblichiamo la gran parte lasciando che ad introdurli siano le stesse parole della figlia:
"Mio padre Nazareno fu combattente durante la Seconda Guerra Mondiale nei Balcani con la Divisione Venezia e partigiano, dopo l’8 settembre del 1943, facendo parte della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi che operò in particolare nel Montenegro, ed in tale contesto, fu gravemente ferito in combattimento partecipando alla lotta contro i nazi-fascisti. A seguito della grave ferita riportata alla gamba sinistra mio padre fu costretto al rimpatrio: lasciò Gacko (Bosnia) il 16 settembre 1944 con un aereo da trasporto che faceva ritorno in Italia dove sopportò molti interventi chirurgici e ben quattro anni di ingessature, riuscendo infine a deambulare solo tramite scarpe ortopediche. All’indomani del rientro in Patria, non appena le sue condizioni fisiche lo resero possibile, collaborò per qualche tempo con codesta Associazione nell’assistere i reduci mutilati ed invalidi di guerra nei loro molteplici bisogni sia di pratica sussistenza che per gli aspetti burocratici e amministrativi. Successivamente svolse attività lavorativa presso la Direzione Generale dell’INPS a Roma dal 1948 fino al suo pensionamento (1970). Dal dicembre 1979, per alcuni anni a seguire, mio padre ha rivestito la carica diCamicia Rossa 1979 - Testimonianze dirette - Prigioniero dei Cetnici di Nazzareno Ciofo Nazzareno Ciofo è il
Presidente della Sezione di Roma dell’Associazione Veterani e Reduci Garibaldini “Giuseppe Garibaldi”. Considerato l’intenso rapporto intrattenuto per tutta la vita da mio padre Nazzareno con l’ANMIG e certa di onorare la sua memoria, consegno a codesta Associazione talune riviste a lui appartenute, all’interno delle quali sono presenti articoli su quei tragici avvenimenti bellici, tuttavia gloriosi, che narrano episodi significativi di cui mio padre è stato protagonista. Consegno inoltre copie di altre documentazioni relative a Concessioni, Diplomi di Onore ed Onorificenze nel tempo attribuite a mio padre dallo Stato Italiano, dallo Stato Jugoslavo, per gratitudine e riconoscenza, e da altre Istituzioni pubbliche ed Associazioni combattentistiche. Questa mia iniziativa al fine di conservare memoria per le future generazioni dei valori di libertà, democrazia e spirito di sacrificio che sempre furono perseguiti da mio padre e profusi in me attraverso i suoi tanti racconti di quegli anni tribolati e soprattutto attraverso i suoi insegnamenti ed il suo stile di vita. Ringrazio l’Anmig
per la disponibilità mostrata nell’accogliere e preservare ricordi a me tanto cari, che sono certa troveranno la loro giusta collocazione nella cornice di memorie così uniche e rappresentative del nostro Paese. Con riconoscenza" Rossana Ciofo
Presidente della Sezione di Roma al quale dobbiamo questo ricordo della lotta partigiana in Jugoslavia: una delle tante avventura occorse ai combattenti della “Garibaldi”. Ringraziamo l’amico Ciofo e ci auguriamo che il suo esempio abbia seguito e ci dia la gioia di altre testimonianze che andranno ad arricchire la pubblicistica sulla “Garibaldi”. Era una notte del settembre 1944, mentre rientravo al mio reparto, dopo essere stato di scorta armata ad un carro carico di feriti partigiani diretti in ospedale, quando caddi in una imboscata cetnica. Dopo avermi disarmato e spogliato delle mie misere cose, fui condotto nel loro accampamento. Appena giunto, notai fra gli altri una donna, anche lei prigioniera. Ci scambiammo qualche parola e fra l’altro lei mi disse di essere la moglie di un noto partigiano della zona. In seguito, non ebbi più occasione di rivederla perché di lei si occupò il reparto che l’aveva catturata. Dopo il primo sbigottimento, cercai di riordinare le idee, ma per quanto provassi ad essere ottimista, credetti che per me l’odissea garibaldina stesse per finire. Invece i cetnici, dopo essersi consultati, decisero di portarmi con loro sino a Gacko dove c’era un presidio tedesco. Naturalmente in quella cittadina avrei trovato certamente la morte, perché sapevo benissimo che i tedeschi fucilavano quasi sempre i partigiani della “Garibaldi” che cadevano nelle loro mani. Durante il lungo peregrinare sulle montagne del Montenegro, venni sottoposto a duri maltrattamenti e spesso la fame mi spingeva a raccogliere e mangiare i rifiuti che i miei aguzzini gettavano: qualche volta mi negarono persino l’acqua da bere, con la motivazione che in quella zona scarseggiava. Quando la sera si sostava per il pernottamento, il comandante, con cinico sadismo, ordinava ad alcuni suoi uomini di spingermi a ridosso della montagna per fucilarmi. Per mia fortuna però ogni volta veniva rimandata l’esecuzione. Indubbiamente non era intenzione del comandante farmi uccidere, almeno per il momento, ma era evidente l’odio che nutriva per me che ero un partigiano. Infatti non perdeva mai l’occasione per dimostrarlo ed era chiaro che il suo sadico comportamento aveva l’indubbia finalità di indebolire il mio morale. Il quinto o sesto giorno dalla mia cattura, una mattina il reparto venne attaccato da una formazione partigiana jugoslava, tuttavia io che ero sempre controllato a vista, non potei fare nulla per sfuggire ai miei aguzzini. In quella occasione i cetnici subirono forti perdite e i pochi scampati riuscirono a porsi in salvo raggiungendo un bosco poco lontano, dove, medicati i feriti, cercarono di riorganizzarsi alla meglio. Ricordo che per raggiungere la vegetazione, dovemmo attraversare un tratto di territorio allo scoperto, sotto le raffiche delle armi partigiane; e poiché io tentavo di rimanere indietro, cercando di eludere la loro sorveglianza, fui percosso e poi spinto con le armi sino al limitare del bosco. Ancora oggi tra le ombre del passato, rivedo chiaramente quegli uomini cadere uccisi in ritirata. Cessato lo scontro, quando il comandante cetnico mi vide tra i superstiti, fu talmente irritato dal fatto che io non avevo perso la vita e , ancora una volta, anche in quella occasione, non disdegnò di minacciarmi con le armi. Altri poi sadicamente mi facevano osservare che molti dei loro amici erano morti o feriti mentre io, che comunque fossero andate le cose dovevo morire, l’avevo ancora scampata. Da quel momento non fui più tollerato, il loro odio aumentò e sempre più spesso fui maltrattato e percosso con il calcio dei loro fucili. A quel punto ero deciso a tentare l’impossibile pur di sfuggire alle loro persecuzioni, anche perché ci eravamo molto avvicinati alla cittadina di Gacko che era presidiate da truppe tedesche, dove imminente sarebbe stata quasi certa la mia fine. Trascorsi un paio di giorni senza altre sorprese (…) arrivammo sulle colline di Gacko ove la compagnia si fermò unendosi ad altri reparti cetnici, i quali avevano preso posizione di difesa del centro abitato prendendo un attacco partigiano alla città, che stava per essere abbandonata dal presidio tedesco. Infatti, durante la notte seguente, improvvisamente i partigiani sferrarono l'offensiva ed io, nel chiarore delle esplosioni, vedevo distintamente i miei compagni avanzare incuranti della reazione nemica. In quel momento ero talmente preso dal pensiero della mia imminente liberazione, che non mi curavo più della battaglia che si stava sviluppando intorno a me: anzi, nel vedere i cetnici cadere uccisi, mentre tentavano di ripiegare, sentivo nell’animo un senso di profonda soddisfazione, tante erano state le sofferenze patite per causa loro. La mia mente si posò per un istante su uno die miei carcerieri: era molto giovane ed umano, ricordai che in parecchie occasioni, assai critiche per me, egli mi fu di grande aiuto e quando era stato possibile mi aveva persino offerto del tabacco. Ancora oggi sono certo che senza il suo appoggio non avrei avuto la forza di resistere. Mentre ero assorto in questi contrastanti pensieri, udii le voci di alcuni cetnici che mi intimavano di seguirli. Ma io non mi mossi: quasi non sentivo o non volevo sentire quelle parole che ancora una volta volevano strapparmi la libertà. A svegliarmi da quel torpore, fu l’acuto dolore provocato da una raffica di arma da fuoco che mi colpì alla gamba sinistra. Capii chiaramente che i cetnici intendevano uccidermi prima di ritirarsi, ma anche in quella occasione, così disperata, sfuggì loro l’opportunità di porre fine alla mia vita. Pochi minuti dopo fui raggiunto dai partigiani che avanzavano e ancora una volta corsi pericolo, perché in quelle condizioni ed in tali circostanze mi fu difficile spiegare la mia posizione. Infine, riconosciuto come partigiano, fui medicato alla meglio da alcune drugarizze e poi trasportato in una casa adibita ad ospedale. Finalmente dopo circa dieci giorni finì il mio calvario. Ormai ero libero e calmo, anche se la ferita riportata alla gamba era certamente molto grave. Infatti ero stato colpito da due pallottole esplosive ed una di esse era scoppiata nell’interno dell’arto frantumando le ossa. In quella specie di ospedale dove ero stato trasportato, ad approntarmi le prime cure fu il dott. Silvani. Ricordo che svolgeva il suo delicatissimo compito senza sosta e con tanta umanità. Egli aveva pochissimi mezzi a disposizione e malgrado ciò riusciva a fare miracoli. Alcuni giorni dopo fui rimpatriato, per via aerea, assieme ad altri feriti: decollammo da un campo di fortuna apprestato alla meglio per lo scalo dei materiali bellici provenienti dall’Italia. Giunto a Bari, mi ricoverarono in un ospedale alleato, dove fui sottoposto a vari interventi chirurgici. Poi a Roma e finalmente a casa. Ho rivisto il professor Silvani dopo più di trent’anni, in occasione di una sua venuta a Roma per partecipare ad una riunione del consiglio di Presidenza della nostra Associazione. Ho provato una grande commozione nel rivedere l’uomo che con la sua opera, ma soprattutto con la sua profonda umana abnegazione, con mezzi veramente inadeguati, più di trent’anni fa, riuscì ad impedire che la mia gamba venisse amputata. Nazzareno Ciofo Camicia Rossa – Anno VI – N.2 – Giugno 1987 - Riconoscenza e gratitudine nelle decorazioni jugoslave consegnate a 450 reduci della “Garibaldi” Nel mese di marzo, a Firenze il 15 e a Torino il 23, due solenni cerimonie hanno rievocato il contribuito dato alla Resistenza Jugoslava dalla Divisione Garibaldi. La consegna di 450 onorificenze a garibaldini e vedove di garibaldini simboleggia il riconoscimento sempre vivo della vicina nazione per gli uomini che scrissero autentiche pagine di eroismo in quei territori. Uno ad uno, gli insigniti si sono presentati dinanzi al tavolo della presidenza dove l’Ambasciatore Ante Skataretiko, a nome del suo Governo, ha consegnato questi segni che vogliono premiare il coraggio personale dimostrato in tempi ben duri e in circostanze assai difficili. Il fatto che sia stato il più alto rappresentante della nazione jugoslava in Italia ad insignire i reduci delle ambite onorificenze, ha contribuito ad elevare al massimo livello il significato ed il valore del tangibile riconoscimento dimostrato a coloro che, a prezzo di enormi sacrifici, hanno onorevolmente contribuito alla liberazione ed alla libertà di quel popolo. Nel suo intervento, preliminare alla consegna, l’Ambasciatore, dopo essersi detto onorato e lieto di poter presenziare a quelle riunioni garibaldine, ha affermato: “Sono passati più di quaranta anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla liberazione dei nostri due Paesi, ma sono certo che voi dividete la mia opinione che il tempo passato non toglie nulla né ai meriti di allora, sempre vivi nei nostri ricordi e nei nostri pensieri, né al significato ed al valore di queste onorificenze. È un’occasione veramente felice per un Ambasciatore incontrare nel Paese di accreditazione un numero tanto elevato di amici veri della propria Patria. Nei tempi e nei momenti più difficili, drammatici per la Jugoslavia, Voi, compagni garibaldini, avete ripreso le armi e vi siete messi fianco a fianco con i popoli jugoslavi nella lotta contro il comune nemico, onorando così i valori della gente italiana, nonché la Resistenza e le Forze Armate italiane. Le necessariamente scarne motivazioni riportate nei diplomi relativi alle decorazioni non possono esprimere tutto il coraggio, la devozione e lo spirito di sacrificio, l’altruismo il cameratismo e la solidarietà con la gente jugoslava dimostrati da questi combattenti italiani che, in tal modo, posero anche le autentiche solide basi allo sviluppo dei nostri rapporti di buon vicinato nel dopoguerra. Una reciproca migliore conoscenza e comprensione ci aiutarono a sormontare molti pregiudizi, a rimuovere molti malintesi e a risolvere molte difficoltà nel tracciare e spianare la strada ai rapporti di buon vicinato e di collabo0razione, arrivando nel 1975 alla firma degli accordi di Osimo. L’interesse della pace esige da tutti noi l’impegno di trasmettere alle giovani generazioni i valori che sono garanzia di amicizia e di collaborazione”. Alle parole dell’Ambasciatore ha fatto eco l’intervento del
Presidente ANVRG, Gen. Sarlo, che ha espresso il più cordiale saluto e il più vivo ringraziamento alla Presidenza della Repubblica Federativa di Jugoslavia ed in particolare al suo Rappresentante ufficiale, nonché alle Autorità civili e militari che con la loro significativa presenza hanno voluto esaltare il valore spirituale delle cerimonie. Rivolgendosi agli amici e commilitoni reduci, egli ha affermato che “quella vampata di orgoglio e di emozione propria del momento in cui veniamo insigniti dalle onorificenze, varrà a ricordarci altre vecchie emozioni provate tanti anni orsono;
- Quell’emozione del 9 settembre 1943, allorchè volontariamente ed unanimemente decidemmo di non arrenderci, di non cedere le armi che la Patria ci aveva dato in consegna, di combattere per l’onore d’Italia;
- Quell’emozione del 2 dicembre ’43, allorchè combattenti delle Divisioni Venezia e Taurinense ci unimmo per dar vita alla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi che, fianco a fianco con i partigiani jugoslavi, combattè per la liberazione di quella Nazione;
- Quelle tante dolorose emozioni provate quando vedemmo cadere accanto a noi molti amici e compagni d’arme;
- Quella grande emozione che provammo il 5 marzo del ’45, allorchè riuscimmo a vedere il mare di Dubrovnik, ad imbarcarci su quelle navi che troppo lentamente solcavano l’Adriatico, a scorgere da lontano quel porto di Brindisi nel quale ci sembrò di vedere concentrate tutte le regioni d’Italia, tutte le nostre famiglie, tutte le nostre case.
- Orgoglio per la consapevolezza di quanto si dimostrarono giuste le decisioni che avevamo preso il 9 settembre del ’43;
- Orgoglio per la coerenza con cui abbiamo saputo legare la nostra volontà con il nostro comportamento;
- Orgoglio per l’esatta interpretazione che abbiamo saputo dare alle espressioni, solo apparentemente retoriche, di “onore” e di “dovere”;
- Orgoglio per la chiara, lampante, inequivocabile e coerente dimostrazione del nostro attaccamento alla patria, del nostro spirito di fra
tellanza fra i popoli, del nostro amore per la libertà”.
Presidente ha concluso con un toccante appello agli amici e commilitoni della Garibaldi: “Chiedo a tutti voi che nel momento in cui riceverete la ricompensa, ciascuno pensi di avere accanto a sé un amico o un commilitone caduto e dedichi a lui la ricompensa ricevuta, perchè ancora più di noi Egli l’avrebbe meritata, avendola pagata con la vita”. Il significato profondo e importante delle due cerimonie è stato posto in risalto dagli interventi del vicepresidente della Provincia, a Firenze, e del vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte, a Torino. Le istituzioni repubblicane si sono dimostrate attente ai temi proposti in quegli anni che rappresentarono per l’Italia e la Jugoslavia l’affermazione di una nuova coscienza civile e politica. Tratto da “Patria indipendente” quindicinale della Resistenza degli ex-combattenti - Anno XXXI – N. 14 – 12 settembre 1982 A Berane con la Divisione “Venezia” di Nazzareno Ciofo A distanza di 39 anni è ancora vivo in me il ricordo del momento storico dell’annuncio dell’armistizio. Era a Berane, una cittadina del Montenegro, ed ero in forza alla 76ª Compagnia Artiglieri della Divisione di Fanteria “Venezia”, addetto al carro-officina del reparto. Non mi lasciai prendere da facili ottimismi e mi resi subito conto della nuova situazione, soprattutto nei confronti della gente del luogo che chiaramente ci era ostile. Anche i tedeschi si fecero sentire con il lancio di manifestini di propaganda e con bombardamenti aerei. Una mattina, alle prime luci dell’alba, ci accorgemmo che il presidio di Berane era accerchiato da migliaia di Cetnici (nazionalisti montenegrini), che, senza ombra di dubbio, dimostravano chiaramente di volere le nostre armi per combattere contro i partigiani di “Tito”. Non sono né uno scrittore né uno storico ma mi affido al ricordo con lo spirito di un garibaldino che dopo l’8 settembre fece parte della gloriosa Divisione partigiana “Garibaldi”. Di quei drammatici giorni ricordo che insieme al Ten. Pelagalli, responsabile del carro-officina del reparto, dove io stesso prestavo la mia opera, ci prodigammo, facemmo l’impossibile per riparare un grosso compressore abbandonata da chissà quale ditta italiana nei pressi del nostro carro-officina. Portato a termine, con successo, il lavoro, ci unimmo ad altri genieri e col prezioso ausilio del compressore cominciammo subito a lavorare per il livellamento di un vasto campo allo scopo preciso di trasformarlo il più presto possibile in un campo aviazione di fortuna. Infatti, come era stato previsto, ci fu di grande utilità, perché dopo un paio di giorni vi atterrò un aereo proveniente da Bari portando ordini e documenti diretti al Comando di Divisione. Purtroppo poco dopo piombò sul campo un caccia tedesco che lo mitragliò danneggiandolo però solo leggermente. Subito dopo il pilota del nostro aereo, il Ten. Pelagalli ed il sottoscritto andammo a constatare i danni subiti e poiché era stato danneggiato il condotto dell’alimentazione lo smontammo per ripararlo in officina. A lavoro ultimato, mentre ci accingevamo a rimontare il pezzo, altri due caccia tedeschi comparvero improvvisamente nel cielo accanendosi ancora sul nostro aereo, completando l’opera che avevano iniziato e distruggendolo completamente. Ci salvammo riparandoci dietro le ruote d’acciaio del compressore, che per nostra fortuna sostava ancora ai bordi del campo, coprendoci dal mitragliamento degli aerei diretto anche verso di noi. Ricordo ancora gli ultimi giorni di permanenza a Berane, prima che la nostra unità prendesse la via delle montagne per iniziare la lotta contro il nazifascismo. Fu allora che presi l’iniziativa di costruire delle grosse bombe in lamiera di ferro, grazie ai mezzi reperiti nel carro-officina, all’aiuto dei miei compagni e soprattutto la tritolo che era in giacenza nella polveriera del reparto. Nei combattimenti che seguirono, le usammo sia noi che i partigiani jugoslavi ed ebbero successo anche contro mezzi di trasporto tedeschi, per la potenza dirompente che sprigionavano. Forse è interessante spiegare, anche sommariamente, le caratteristiche tecniche della bomba per comprendere l’innata capacità degli italiani a risolvere con pochi mezzi i più difficili problemi. Si immagini un cilindro costruito in lamiera di ferro, dalle dimensioni di dodici centimetri di diametro e quindici di altezza, ripieno di tritolo nella parte inferiore e nell’altra metà di ferraglie di piccole dimensioni: il cilindro era predisposto alla sua sommità per l’innesto di una bomba a mano, di formato piccolo, come la “romanina”, e alla base per il fissaggio di un manico di legno molto solido che serviva per lanciarlo. Una volta scagliata sul bersaglio, l’esplosione della piccola bomba provocava a sua volta lo scoppio della grande causando enormi danni su tutto ciò che colpiva. Nei giorni successivi giunse l’ordine di lasciare il presidio di Berane per raggiungere altre mete attraverso le montagne del Montenegro, affrontando spesso aspri combattimenti contro i nazifascisti. Fu una lunga odissea. Per me finì dopo circa un anno, il 2 settembre 1944, nei pressi di Gasko in Erzegovina, quando rimasi ferito ad una gamba da due pallottole esplosive per cui, dopo le prime cure fui trasportato in barella, dai miei compagni, per un lungo tragitto, sino al campo di aviazione da dove in aereo raggiunsi l’Italia. Patria Indipendente - Numero 17 del 3 novembre 1985 Nazzareno Ciofo, di Piansano (Viterbo), classe 1920. Geniere della “Garibaldi”, già effettivo alla 76ª compagnia artieri della Divisione “Venezia”, mutilato di guerra, vivente. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con grave rischio della propria vita, costruiva grosse bombe anticarro, ripiene di tritolo e ferraglie, che trovarono largo impiego contro mezzi di trasporto tedeschi. Il 2 settembre 1944, catturato dai cetnici mentre svolgeva attività operativa presso la 29ª Divisione Jugoslava, venne condotto a Gacko (Erzegovina) dove fu sottoposto a maltrattamenti e minacce di morte. Nella stessa giornata un improvviso e violento attacco di partigiani jugoslavi ed italiani (II Brigata “Garibaldi”), costrinse il nemico ad una precipitosa ritirata. I cetnici, per non perdere il “prigioniero”, che si attardava a seguirli, lo colpirono con una raffica di pallottole esplosive che gli frantumò l’osso della gamba sinistra. Ciofo subì sul posto un primo intervento chirurgico, ma per la gravità della ferita fu costretto al rimpatrio; lasciò Gacko il 16-9-1944 con un aereo da trasporto che faceva ritorno in Italia. Atterrato a Bari fu ricoverato all’ospedale militare della città e poi in altri luoghi di cura, dove la degenza si protrasse per altri due anni. A questa triste odissea del geniere Nazzareno Ciofo intendo accumunare tanti altri compagni della Divisione “Garibaldi”. Angelo Graziani Patria Indipendente n.8 del 21 settembre 2008 - In Jugoslavia con la Divisione partigiana “Garibaldi” “….e il mio papà costruiva bombe anticarro” di Rossana Ciofo È deceduto in data 7 aprile 2008, all’età di 87 anni. Mio padre, Nazzareno Ciofo, nato a Piansano (Viterbo) il 24 giugno 1920, combattente della Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” e mutilato di guerra. Chiamato alle armi all’avvio del secondo conflitto mondiale, fece parte della Divisione “Venezia” che inizialmente operò sul fronte greco-albanese e successivamente nei Balcani ed in particolare negli impervi territori della Bosnia, dell’Erzegovina e del Montenegro. Furono quelli, per i soldati italiani, anni tragici e dolorosissimi, segnati da stenti indicibili e terribili sofferenze, attanagliati dalla fame, dal gelo e dalle malattie, costantemente in pericolo di vita, nel corso dei quali ai già orribili eventi bellici si mescolavano le vicende politiche e sociali di quelle terre straniere non solo coinvolte nel conflitto ma teatro di lotte interne fra le stesse parti jugoslave belligeranti. All’indomani dell’armistizio (8 settembre 1943) le Divisioni “Venezia” e “Taurinense”, forti di circa 22.000 uomini, seppero resistere eroicamente all’invito alla resa incondizionata imposto dai tedeschi e dai loro alleati fascisti ed il 2 dicembre 1943 costituirono la Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” collaborando alla lotta di liberazione del popolo jugoslavo per vincere, in nome della Patria lontana, la propria stessa Guerra di Liberazione e per riaffermare i più alti valori di libertà, democrazia e giustizia sociale. Undicimila i caduti accertati ed i dispersi, pari al 50% degli effettivi, l’altra metà i sopravvissuti, gran parte die quali rimpatriati per ferite o malattia, fra cui mio padre Nazzareno. È per me motivo di orgoglio trarre questo spunto dal libro Soldati Italiani nella Resistenza in Montenegro (pag.149) scritto dal Gen. Angelo Graziani, che proprio in questi giorni è purtroppo venuto a mancare, e pubblicato nel 1992 in collaborazione con la Rivista dell’ANPI Patria Indipendente. Nell’opera, dedicata come numerosi altri testi (1) a quelle vicende tragiche sebbene gloriose, l’autore, all’epoca anch’egli della Divisione Garibaldi col grado di Capitano, ripercorre le gesta dei militari italiani in Montenegro dall’estate 1943 alla primavera 1945. In effetti mio padre in Italia subì altri interventi chirurgici alla gamba ferita e, al fine di consentire la ricostruzione del callo osseo da sotto al ginocchio fino alla caviglia, essendo stata la tibia completamente distrutta dalle pallottole esplosive, restò ingessato per quattro lunghi anni. Fortunatamente, sebbene con l’ausilio di scarpe ortopediche, di cui non potè più fare a meno, fu poi in grado di riprendere lentamente a camminare e quindi condurre un’esistenza piena ed autosufficiente malgrado l’oggettiva limitazione fisica. Dallo Stato italiano gli furono riconosciute quattro Croci di Guerra al Valor Militare e, in data 17 febbraio 1986, alla presenza del
Presidente Pertini, fu insignito dalla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia di decorazione al valore con l’Ordine della Fra
tellanza e l’Unità con Serto d’Argento. Lo stesso Stato jugoslavo, in segno di riconoscenza e gratitudine, già nel marzo 1981, gli aveva conferito altra medaglia per il “contributo prestato alla comune vittoria sul fascismo e per l’avvicinamento e l’amicizia fra i popoli”. Nel novembre 1977 gli fu attribuita dall’Associazione Veterani e Reduci Garibaldini la S
tella al Merito Garibaldino istituita da Giuseppe Garibaldi nel 1863 “per la fedeltà agli ideali della tradizione garibaldina”. Di detta Associazione, all’inizio degli anni ’80, ricoprì l’incarico di
Presidente della Sezione di Roma, con sede in Porta San Pancrazio, continuando a coltivare, tramite l’attività ivi svolta, gli ideali di libertà e democrazia che ispirarono durante il secondo conflitto mondiale le gesta della Divisione “Garibaldi”. Dal 1948 al 1970 prestò lodevole servizio presso gli Uffici della Direzione Generale dell’INPS in Roma dove fu sempre apprezzato per la sua responsabilità e competenza. Nel 1949, ancora sofferente per la ferita e deambulante a fatica, si unì in matrimonio con mia madre Assunta, che sempre lo sostenne e con la quale ha condiviso per cinquantanove anni di vita in comune, e nel febbraio del ’50 nacqui io, Rossana, sua unica figlia, cui volle trasmettere, con la sua personale testimonianza di quegli eventi tragici e dolorosi ma vissuti eroicamente per la libertà e l’onore del nostro Paese, i più nobili valori della Resistenza che restano sempre attuali, da preservare e difendere anche in memoria di quanti non hanno più fatto ritorno. Unico e bellissimo è stato il rapporto con mio padre, a cui mi univano molti aspetti del carattere ed altrettanti ideali ed aspirazioni. Era amorevole e disponibile ma dignitoso, gioviale tuttavia impegnato, fu per me un compagno di giochi ed amico oltre che maestro di vita. Sono felice di avergli potuto dare la soddisfazione di vedermi conseguire nel 1974 la Laurea in Scienze Politiche e più di recente, circa dieci anni fa, superare il concorso presso l’INAIL di Roma, dove sino allo scorso mese di settembre ho prestato attività lavorativa. Mio padre Nazzareno fu sempre circondato dall’affetto dei suoi familiari e dalla stima di tutti quanti lo conobbero e lo apprezzarono per il suo animo generoso ed attento ai bisogni altrui, per i suoi modi gentili e socievoli, per il suo atteggiamento positivo sempre aperto alla vita. Nel corso della sua esistenza sopportò con forza e speranza molte malattie anche gravi, confortato dalla Fede che mai lo ha abbandonato, subendo nel tempo ulteriori interventi chirurgici e recuperando tuttavia ogni volta un discreto stato di salute. Nel dicembre del 2004 fu purtroppo colpito da una grave forma di ischemia cerebrale che fiaccò gradatamente le sue condizioni generali ma non i tratti del suo animo, restato gentile ed affettuoso, sino al recente decesso causato da complicanze da ultimo insorte. Resta ora un incolmabile vuoto appena attutito dalla certezza che ora vive nella pace eterna e veglia ancora su di noi con amore come sempre. DIPLOMI ED ONORIFICENZE CONFERITI A NAZZARENO CIOFO Diploma d’Onore per l’appartenenza alla Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” in data 13 marzo 1945; Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito Jugoslavo congedo in data 9 giugno 1945; Ministero della Guerra Diploma d’Onore in data 26 novembre 1946 quale riconoscimento dell’appartenenza, durante la “Guerra di Liberazione” contro la Germania, alla Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi”; Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 27 marzo 1951 Riconoscimento della qualifica di partigiani della formazione partigiana divisione “Garibaldi” operante in Jugoslavia ferito in combattimento; Esercito Italiano n.3 Croci al Merito di Guerra in data 18 marzo 1960; Ministero della Difesa – Esercito autorizzazione a fregiarsi del distintivo d’onore “ferito in guerra” in data 22 maggio 1965; Regione Toscana attestato ai Combattenti della Divisione “Garibaldi” in data 9 dicembre 1973; Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini “Giuseppe Garibaldi” S
tella al merito Garibaldino in data 13 novembre 1977; Presidenza della Repubblica Socialista Jugoslava Diploma e Medaglia “Morte al fascismo – libertà ai popoli” nel 1981 presso l’AMBASCIATA Jugoslava; Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Sezione Regionale Province del Lazio Diploma al Merito rilasciato alle Formazioni Partigiane all’Estero in data 9 febbraio 1985 – Palazzo Valentini Roma; Presidenza della Repubblica Italiana Diploma d’Onore al combattente per la libertà d’Italia 1943-1945 in data 13 maggio 1985; Presidenza della Repubblica Socialista Jugoslava Diploma e Medaglia “Ordine della Fra
tellanza e l’Unità con Serto d’Argento” in data 17 febbraio 1986 consegnati dall’Ambasciatore Jugoslavo a Firenze – Palazzo Riccardi nel marzo 1987 con foto. [gallery link="file" ids="11610,11611,11612,11613,11614,11615,11616,11617,11618,11620,11621,11622,11623,11624,11625"]
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francesco Alfonso
telli, sorelle, giovani, come vedete pochi giorni prima del mio aggravamento vi pensai tutti e come salutarci per questo ultimo mio e non avendo altro di più prezioso, in breve vi preparai la conoscenza della mia sofferenza e del mio travagliato destino. Alfonso Francesco, classe 1920 appartenevo ad una modesta famiglia agricola di religione cattolica e avevo la mia piccola licenza elementare. L'anno 1940 a circa 19 anni venivo chiamato per il servizio di leva militare, dopo 3 mesi di addestramenti per trasmissione radio
telegrafista e servizio mitragliatore, nel dicembre 1940 venivo assegnato al 131° Reggimento carrista corazzato della Prima Compagnia di Comando. Il mese di marzo 1941 anche per poco perché allora si trattava di correre partecipai al primo difficile attacco della guerra lampo in Albania e Croazia, poi in brevissimo tempo, tutto il restante del nostro reparto fu aggregato al Comando della Divisione Ariete che per via aerea raggiungevamo e che già operava in grave difficoltà sul fronte dell'Africa Settentrionale. E come sopra, anche questo viaggio fu tremendo perché nel cielo di Malta ci fu un grosso scontro a fuoco, quattro dei nostri quadrimotori scendevano nel Mediterraneo e noi atterrammo nel deserto egiziano dove per circa un anno ancora ci accompagnò il grande terrore per la reggenza della grande roccaforte di El Alamein. Eravamo senza acqua e spesso filtravamo la benzina per una goccia d'acqua sulle nostre labbra, spesso mancavano le munizioni e le nostre sofferenze erano penetranti. Dal 23 ottobre al 15 novembre si sferrò la più grande battaglia dell'Africa con lo scopo di sfondare tutto il fronte e dare ritirata a chi toccava... le nostre forze non mancavano, ma mancò la fortuna. Io cadevo ferito il giorno 12 con la perdita di una mia gamba, il momento fu molto pericoloso e assai difficile perché eravamo in spostamento di ritirata per arrivare almeno a Tripoli o in Tunisia, le strade non c'erano più e la distanza da percorrere era di circa 3450 chilometri e così cominciò un altro mio calvario. Le mie cure furono lunghe e complicate , nell'anno 1945 durante il controllo di tutti i militari mi fu consegnata la Croce al valore di guerra; l'anno 1947-48 l'onorevole Amministrazione comunale di Cas
telliri mi conferiva l'incarico di messo comunale, successivamente la Pretura di Sora con regolare decreto mi dava carica di Usciere dell'Ufficio di Conciliazione di Cas
telliri, l'anno 1950, l'Amministrazione del comune di Cas
telliri con regolare delibera del consiglio mi nominò Economo del comune. Miei cari tutti, come ancora vedete, prima tutto per la vita, dopo tutto per le sofferenze, ora per la Pace, Dio per me sia sempre benedetto. Tanti ringraziamenti e saluti a tutti, con l'aiuto del Signore vi auguro ogni bene, per tutti. Vostro fra
tello, Alfonso Francesco.” La sua vita è stata una vita lunga ma piena di ostacoli e sofferenze: fisiche, dovute ai forti dolori causati dal moncone, ricordo ancora bene le cicatrici e le notti in cui i dolori non davano tregua e sofferenze spirituali a causa di lutti e dispiaceri personali. Tuttavia, il bene e la bontà che caratterizzavano il suo animo e la serietà con cui ha portato avanti i suoi impegni professionali delineano il ricordo di un uomo benvoluto da tutti, parenti, amici, colleghi e semplici conoscenti. Non è mai troppo presto per lasciare andare chi abbiamo amato, ma siamo grati per averlo avuto tra noi. Vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato e vi porgo i miei più sentiti saluti. Ilaria Larocca nipote di Francesco Alfonso, Cas
telliri (FR)
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Antonio Bolzonella, il mio bisnonno
"Il mio bisnonno materno, Bolzonella Antonio è nato il 28 marzo 1915 a Dese da Barbison Luigia, sarta e Bolzonella Antonio, coltivatore diretto. Era quarto di sei fra
telli che si chiamavano..."
Pubblichiamo il bel tema (classe V^ elementare) di Sofia Checchin pronipote del nostro socio Antonio e nipote di Mirella Bolzonella la quale, insieme con il figlio Davide, mantiene vivo il ricordo degli invalidi di guerra e delle vicende che li videro protagonisti attraverso il racconto e la memoria tramandati alle nuove generazioni.
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“Pace” di Giovanni Scaturro
Pace
Questo volto, quest’uomo;
al sacrificio dei nostri cari
nostro Padre;
che mai nel profondo dell’animo
si sentirà innocente,
così essi violarono la saggezza
per difesa della loro vita..
Sull’acqua un corpo
sfregiato di rocce appuntite
rende pietoso il creato di donna;
di una donna Madre.
Un prete che invoca il perdono
ai potenti del mondo,
perché non sanno
che la vita è nella vita,
difendiamola;
e che mai più l’uomo
gridi Guerra alla Guerra
Giovanni Scaturro
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“Memorie di un internato” di Giuliano Vitali
Giuliano Vitali, classe 1924, di Trento, uomo brioso dallo sguardo vivace, è uno dei testimoni dei campi di prigionia nazisti della Seconda Guerra Mondiale.
Internato dal settembre 1943 all'aprile 1945 nei campi di lavoro forzato Stammlager X di Bremerworde e 1269 di Groz Bos
tel ad Amburgo, Vitali si è recentemente raccontato in un libro dove ha raccolto i ricordi di questa terribile esperienza sotto il titolo di "Memorie di un internato”. Scorrendo le pagine del racconto si rimane colpiti dalle dolorose vicissitudini che lo hanno accompagnato, assieme a tanti altri soldati italiani, dal giorno dell'armistizio fino alla fine della guerra. Vitali, nei giorni vicini all’8 settembre si trovava a prestare servizio militare presso il Deposito Reggimento 232° Fanteria di Bolzano.
La mattina del 9 settembre 1943, dopo una notte di spari, un drappello di soldati SS preceduti da Carri armati tipo Tigre, entrano nel piazzale della Caserma disarmando il presidio e conducendo tutti i militari nel greto del fiume Talvera dove rimasero un paio di giorni.
L’11 settembre Vitali, assieme a tutti i soldati, viene trasferito alla stazione ferroviaria e caricato forzatamente su un treno, stipato all'inverosimile, destinazione Germania. Un viaggio allucinante, reso drammatico dalle condizioni igieniche impossibili, senza acqua e ristoro, eccetto qualche pezzo di pane buttato nella massa e qualche goccio d'acqua rubato da qualche provvidenziale fontanella faticosamente raggiunta nelle rare fermate.
Giunti a destinazione dopo 6 giorni di viaggio, viene condotto nel Campo di Stammlager X a Bremervorde e da qui inizia ufficialmente la sua odissea marchiata dal numero riportato su una targhetta appesa al collo (n.152.861) e dalla scritta riportata sulla giacca "lTALlEN MILITARI INTERNATI” sigla che significava privazione del titolo di prigioniero di guerra con i benefici concessi dalla Croce Rossa, internamento forzato e disumano che strappava anche il più piccolo brandello di dignità della persona umana. A Giuliano Vitali viene affidata la mansione di addetto alla pulizia delle latrine il cui contenuto doveva essere raccolto in bidoni, portato con l'ausilio di un carretto in prossimità di un laghetto composto esclusivamente dal putrido liquame e svuotato. E proprio in quel laghetto Vitali dovrà forzatamente trascorrere un intera notte per essersi rifiutato di essere reclutato nella neo costituita Repubblica di Salo:
“…vista la mia ostinazione a non cedere alla proposta dei gerarchi fascisti convenuti al Campo, il sottoscritto assieme at commilitone Alfredo Piazza di Trento oltre ad un certo numero di internati venimmo trascinati e spinti con colpi di calcio di fucile net laghetto di fogna nel quale scaricavo tutti i giorni le latrine. Ci lasciarono immersi nel nauseabondo liquido fino all'altezza delle ascelle lasciandoci tutta la notte. La mattina seguente ci fecero uscire. Fortunatamente il liquido era caldo
e non accusai nessuno malanno…"
Successivamente viene trasferito nel campo di Groz Bos
tel, cambiano per lui le mansioni diventando recuperante di materiale fra le macerie dei bombardamenti che si susseguivano costantemente sulla città di Amburgo. Il lavoro era piuttosto pesante soprattutto per le scarse energie dovute alla denutrizione. A fronte di una dura giornata al campo la razione alimentare quotidiana consisteva in brodaglia, qualche rapa, 200 grammi di pane, qualche grammo di margarina, qualche Patata.
Per sopravvivere era indispensabile aguzzare l'ingegno escogitando qualcosa per reperire un minimo di surplus alimentare rispetto al rancio. Diventava cosa normale il rovistare nei bidoni dell’immondizia alla ricerca di qualcosa di commestibile: scorze di patate, pezzetti di pane ammuffito...oppure la caccia ai corvi, ai ratti… Racconta: "...in una notte piovosa io con alcuni compagni tentammo l'uscita dal lager in cerca di cibo. Raggiunto il reticolato di filo spinato lo superammo strisciando carponi raggiungendo un campo di patate che si trovava vicino. Con foga mi avventai sulle piantine strappando il maggior numero possibile di patate, riempiendo uno zaino che mi ero portato appresso. La buona sorte volle che nessuno dei sorveglianti se ne accorse e riuscii a portare quel ben di Dio in baracca e lo nascosi sotto le assi del pavimento...purtroppo non altrettanta fortuna ebbero alcuni compagni che emulandoci vollero anch’essi tentare qualche giorno dopo. Stavolta la sentinella si accorse sparando all’impazzata sui fuggiaschi e uccidendo cinque persone. Analoga e crudele sorte ebbe, un mio compagno che tentò di recuperare qualche rapa in un campo. Fu sorpreso mentre stava rientrando al lager e ammazzato senza pietà; mi diressi verso di lui per prestargli soccorso ma inutilmente, era morto, nelle sue mani teneva ancora strette due rape semi-coperte di terra di campo...".
Nella quotidianità di vita al campo le percosse e gli insulti erano la regola. Si iniziava dalla sveglia fatta con colpi di calcio di fucile, spintoni, insulti, proseguendo con l’allineamento nel piazzale per l’appello che poteva protrarsi anche diverse ore, sotto il sole, con il freddo o la pioggia. Frequenti erano i casi di broncopolmonite, tubercolosi ecc. che spesso degeneravano in patologie che portavano alla morte stanti le inesistenti cure mediche. Una delle punizioni più significative era la bagnatura con un getto d’acqua potente o l’immersione in acqua in buche profonde un metro e mezzo e che nella stagione più fredda potevano portare a nefaste conseguenze. Anche Vitali fu “annaffiato” per aver prestato soccorso ad un suo compagno che era stato punito in quel modo.
L'epilogo dell’internamento di Giuliano Vitali comincia una mattina di aprile del 1945 quando “alcuni soldati delle SS entrarono forsennatamente nelle baracche con urla e insulti spingendoci nel piazzale del campo dove successivamente ci caricarono su automezzi diretto verso un boschetto nella periferia di Amburgo (probabilmente era giunto l’ordine di portare fuori città tutti i prigionieri). Rimanemmo lì tutto il giorno. Alla sera tornarono le SS, fecero salire sui camion una metà dei prigionieri, trasferendoli chissà dove, ma intuimmo dai crepitii di mitragliatrice che si udivano in lontananza, che per quei poveracci non ci sarebbe più stato ritorno.
Io e l’altra metà dei commilitoni rimanemmo nel bosco. A notte inoltrata, con il mio inseparabile compagno Alfredo Piazza, riuscimmo a distoglierci dalla sorveglianza delle SS e darci alla fuga che si protrasse per diversi chilometri fino in prossimità di uno scalo ferroviario. da lì riuscimmo a salire su un convoglio che per fortuna si diresse verso Amburgo.
Giunti alla periferia della città scendemmo dal vagone e, trovato un tombino delle condotte fognarie, ci infilammo dentro rimanendo nascosti per qualche giorno finché, durante un’uscita alla ricerca di cibo, ci imbattemmo in un carro armato anglocanadese e venimmo a sapere che la guerra era finita: la Germania si era arresa, la nostra lotta per la sopravvivenza stava per concludersi e potevamo pensare alla strada del ritorno in Patria”.
Il treno bestiame che lo aveva condotto forzatamente assieme a tanti altri militari italiani in un campo di prigionia, questa volta lo avrebbe riportato in Patria, riconsegnato all’affetto dei propri cari.
I due anni di internamento avevano lasciato il segno: il peso si era ridotto a meno di 50 Kg contro i 75 della partenza e la tubercolosi lo costrinse ad altri due anni di cure in ospedali vari. Oltre a questo si aggiunse la beffa che gli internati in campi di lavoro coatto in germana non erano considerati prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra ma internati, appunto, che in parole povere significava mancato riconoscimento di alcuni diritti. Nessun indennizzo, quindi, né da parte italiana né dalle autorità germaniche che avevano abusato di migliaia di uomini impiegandoli come forza lavoro nei campi di concentramento.
Nonostante tutto, Giuliano Vitali è ancora convinto di aver operato per una giusta causa a servizio della sua Nazione nella speranza che le sofferenze subite sarebbero un giorno servite per una nuova vita in un mondo migliore.
Nonostante l’età e le sofferenze subite è stato segretario dell’Anmig
per molti anni ed ha fatto parte della Federazione Internati Militari di Trento, operando con discrezione e capacità in favore di vedove, invalidi ed ex internati, ha presenziato come Alfiere a molte commemorazioni di fatti legati alle vicende belliche. I suoi meriti sono stati riconosciuti con il titolo di cavaliere dal
Presidente della Repubblica Ciampi.
Il suo desiderio più grande è sempre stato che la sua testimonianza potesse essere di aiuto alle nuove generazioni affinché, constatando le tragiche conseguenze della guerra, arrivino alla consapevolezza che solo il perseguimento della pace, mediante il rispetto reciproco, possa tenere a distanza i conflitti portatori di morte, devastazione e sofferenza.
Giuliano Vitali
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Dopo l’8 settembre
Testimonianza di un chirurgo di Guerra
Recentemente un mio parente ha ritrovato, tra le vecchie carte, un dattiloscritto di mio Nonno, Eutimio Guasoni, Ufficiale della Croce Rossa nella Prima Guerra Mondiale. E’ un libro di memorie della sua lunghissima vita, che comprende la sua coinvolgente esperienza di chirurgo volontario.
Il ritrovamento di questo testo mi ha aperto un fiume di ricordi, in particolare quando io, appena undicenne, l’ho aiutato a scrivere a macchina tante pagine
Mio Nonno, infatti, pur non avendo obblighi di leva, Chirurgo Direttore dell’ Ospedale di Ma
telica, decise di arruolarsi; ma vorrei lasciare parlare le sue parole, che descrivono l’abnegazione di un affermato chirurgo che preferì lasciare la comoda posizione di primario ospedaliero per avventurarsi, con un’ambulanza, verso le prime linee: “…. Essendo oramai evidente che anche noi avremmo preso parte al conflitto ed essendo io un convinto interventista per completare l’unità d’ Italia con la sospirata annessione di Trento e di Trieste, mi rivolsi al Comitato Regionale di Bologna della CRI, al quale ero iscritto fin dal 1911, in occasione della guerra Turco-Montenegrina, perché avevo intenzione di prestare servizio nell’ambulanza della CRI diretta dal prof Nigrisoli. Feci pertanto domanda di essere arruolato il più presto possibile in una Unità avanzata se fosse stata dichiarata la guerra all’ Austria”.
Venne, infatti, inserito nel personale medico dell’ Ambulanza da Montagna N.40, destinata a partire per il fronte, e che aveva sede in Lugo di Romagna, composta quasi tutta da romagnoli, e che partì il 26 Maggio 1915 “sopra una tradotta che la portò a sera, a Cividale del Friuli”, dove, avendone avuto il comando e non ricevendo istruzioni ma sentendosi rispondere “arrangiatevi”, si era presentato al Colonnello …. “non col saluto , militare –dato che, non avendo mai fatto il militare, non vi ero avvezzo- ma togliendo borghesemente il berretto ! Questo gesto provocò un sorriso di compatimento del Colonnello e procurò a me la condanna al pagamento di alcune bottiglie di vino ai Colleghi, per punizione !”
A Dresença, “ultima località abitata alle falde del Monte Nero”, dove si stabilì l’ambulanza su ordine del Gen. Etna, un locale fu adattato “a camera d’operazioni”, perché, pur avendo l’ ambulanza solo “il compito di fare medicature a carattere di pronto soccorso… vista la vicinanza con il fronte venivano feriti che andavano operati immediatamente, essendo troppo lontani gli ospedali. Di questa verità si persuasero presto le Autorità Superiori creando le cosidette Ambulanze Chirurgiche d’ Armata, che prestarono servizio nelle immediate vicinanze del fronte seguendolo continuamente man mano si spostasse”.
Così, ad esempio, mio Nonno operò il Caporale Vittorio Zanardi, “che si sforzava di voltarsi su un fianco, senza riuscirvi; dalla testa scompostamente fasciata, usciva sangue raggrumato da una ferita da scheggia di granata che aveva affondato sulla massa celebrale metà della scatola cranica; presentava, quindi, evidenti sintomi di compressione del cervello con paralisi della metà del corpo da esso innervata. Al Generale Gatti, che aveva sostituito il Generale Etna nel comando dei Gruppi Alpini A e B che veniva spesso a far visita all’ambulanza interessandosene vivamente, curioso di sapere cosa intendessi fare in quel pietosissimo caso, risposi che l’avrei operato immediatamente con l’intendimento di sollevare la parte di cranio premente sul cervello e di fare un accurata emotasi allacciando tutti i vasi sanguigni interessati. Sembrò sorpreso della mia determinazione che giudicava audacia, promettendosi di ritornare per seguire l’esito del mio intervento. Tolta la compressione del cervello, mercé sollevamento dell’osso affondato, fino a portarlo alla posizione normale e allacciati i numerosi vasi sanguigni beanti, si notò subito la iniziale scomparsa dell’emiplegia col ritorno di piccoli movimenti prima impossibili e con manifesto miglioramento delle condizioni generali del ferito, che continuò a migliorare fino a guarigione completa… Tornò a casa a Migliarino (Ferrara), si sposò, ebbe numerosi figli ai quali lasciò detto di non dimenticare mai il suo salvatore; dopo la sua morte…. I suoi figli non hanno mai tralasciato di inviarmi deferenti auguri in occasioni delle feste tradizionali”.
Il Gen. Etna, incontrando mio Nonno a Viareggio nel 1924 volle consegnargli un documento proprio in relazione all’ambulanza 40 e della sua attività a Drezença: “dichiaro che durante la nostra grande guerra e precisamente nei mesi di Giugno e Luglio del 1915 il Professore Dottore Eutimio Guasoni allora Tenente Medico della CroceRossa fu con un’ ambulanza da montagna della Croce Rossa stessa, messa a mia disposizione, a Drezença (M.Nero). M’è caro di dichiarare inoltre che tutto il personale dell’ambulanza fece in modo ammirevole il suo dovere, guidato e comandato, com’era da ottimi Ufficiali come il Tenente Guasoni. In piena e sicura coscienza posso affermare che il predetto Professor Guasoni si distinse per capacità professionale, per attività e zelo ammirevoli, nell’ adempimento della sua missione e per meglio rendere il mio pensiero, accennerò al fatto che egli un giorno, durante un aspro e cruento combattimento sostenuto dai miei Alpini, venne da me ad implorare ed ottenne come un premio, di recarsi con una squadra di militi della Croce Rossa, a soccorrere e raccogliere feriti sulla linea di combattimento, dando così encomiabile esempio di buona volontà, di ottimi sentimenti umanitari di apprezzabile cameratismo con le truppe combattenti e di coraggio. Viareggio 14 Gennaio !924. Il Generale di Corpo d’ Armata già C.te i Gruppi Alpini A e B D.Etna”
Mio Nonno, nelle sue memorie, riportando questo documento, così aveva scritto: “allo scopo di ridimensionare il significato e il valore dell’attestato rilasciato dal Generale Etna alla nostra Ambulanza per l’atto di apparente coraggio dimostrato nel soccorrere i feriti durante la battaglia, devo dichiarare che tale determinazione non era dovuta a vero coraggio ed a disprezzo del pericolo, cui saremmo andati incontro se realmente avessimo raggiunto l’obbiettivo. La verità è che eravamo persuasi che il bracciale emblema della C.R. sarebbe stato a nostro giudizio, usbergo sicuro contro le offese nemiche ! Achille aveva un solo punto vulnerabile, il tallone, noi eravamo tutti e da per tutto invulnerabile… La nostra audacia era quindi nient’altro che assoluta incoscienza, incredibile ignoranza del termine “guerra” per noi tutti, colti ed incolti, non ancora vecchi, ma non tanto infantili da poterne ignorare il vero significato…
Tutto ciò del resto, era in carattere con la nostra impazienza di partire per il fronte per il vivo timore di non giungere a tempo a meritarci una parte, sia pur piccola di gloria per la sicura vicinissima vittoria e col senso di umiliazione e di vergogna che avremmo provato se non avessimo prestato servizio in zona d’operazioni e magari in prima linea; e col gesto poco meno che omerico, compiuto, col buttarci a baciare la terra appena giunti sul vecchio confine riconoscibile dal palo che era stato abbattuto dai nostri durante l avanzata in suolo austriaco”….. “Può darsi che qualche scettico sorrida al ricordo di questo rito compiuto con profonda commozione, ma in quel momento, esso era la manifestazione spontanea ed irrefrenabile di tutti i nostri cuori senza distinzione di idee politiche o comunque tali che potessero dividerli”.
Era partito per il fronte il 15 maggio 1915, ha prestato servizio per 36 mesi in zona di guerra e per altri 9 in zona territoriale e nonostante avesse conseguito la libera docenza a pieni voti durante la guerra, rientrando a Modena in un giorno, con un viaggio dapprima a bordo di mulo, poi da Clodig a Udine su di un camion carico di pelli bovine, con una tradotta fino a Padova, poi con un treno omnibus fino a Bologna, cercò di non far sapere del suo titolo per non essere promosso e quindi allontanato dal fronte….
Isabella M. Stoppani
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Sebastiano Russo – Diario
Francesco Politi – Io un IMI
Il giorno 8 settembre 1943 è una data indimenticabile per milioni di persone: per me anche l'inizio del mio CALVARIO.
Marò del BATTAGLIONE SAN MARCO, con qualifica di Guastatore, mi trovavo a POLA (distaccamento Stoia). Quel giorno ero di guardia: cominciai ad avvertire qualcosa di insolito; i nostri superiori andavano e venivano su e giù dalla scala, parlottavano tra loro. Questa cosa mi mise in ansia tanto che abbandonai il posto di guardia e per questo fui minacciato con una pistola, dovevo rimanere al mio posto.
Seppi, poi, che stavano per occuparci i tedeschi e i superiori ci ordinarono di gettare tutte le armi in mare. I tedeschi arrivarono, divennero i patroni del campo, ci chiesero di collaborare con la “Wermacht” ma nessuno di noi accettò tale richiesta. Fummo accentrati tutti nel deposito della Marina, ma di acqua e cibo neanche l'ombra, invece fummo ingannati. Ci dissero che ci avrebbero imbarcati e portati a Venezia e liberati, fummo fatti salire sulla motonave “VULCANIA”, un vecchio transatlantico, marcio e con i motori rantolanti. La destinazione fu proprio Venezia. Rimanemmo in rada, due giorni e due notti: di cibo e acqua non se ne parlava.
Furono gli abitanti di Venezia e non li dimenticherò mai, che con piccole barche ci portarono da mangiare e da bere, cibo di ogni genere, quello che poterono reperire in quel momento così difficile, anche dei frati vennero sottobordo e furono generosissimi.
Eravamo in 5.000 militari stipati e affamati su quella carcassa... rimanemmo in “rada” due giorni e due notti ma, in confronto di quello che subimmo in seguito, questo si poteva paragonare a “niente”. Ecco l'inganno: vennero i tedeschi con delle “LANCE”, ci portarono a terra diretti verso la Stazione Ferroviaria di quella bella città dove ci attendevano i noti vagoni merce. Ci divisero in gruppi di 60, equipaggiati con gli zaini – DESTINAZIONE: l' IGNOTO.
Quando superammo il confine Italiano a Tarvisio, capimmo che ci portavano in Germania. La prima tappa fu fatta in Austria; il convoglio si fermò su un binario “morto” e ci venne dato un pezzo di pane nero.
Richiusero i vagoni e il treno ricominciò a sbuffare; il viaggio durò sei giorni e cinque notti.
Il tempo passava e i problemi crescevano come il fetore che si respirava dentro il vagano a causa dei nostri bisogni fisiologici; si decise di affrontare questa situazione sacrificando i nostri zaini, al fine di arginare un angolo del vagone, destinato da noi a questa emergenza.
La seconda tappa fu ad ALTENGRABOO, un centro di smistamento, eravamo in tanti. Qui fummo divisi e selezionati secondo il nostro fisico, professione o mestiere. Ci rimanemmo tre giorni e nei nostri stomaci passò un mestolo di “brodaglia” al giorno.
Io, essendo un Marinaio del Battaglione San Marco ero dotato di un buono equipaggiamento, ma alla partenza portavo un “camisaccio” e pantaloni di
tela, fortunatamente mi venne l'idea di indossare anche un maglione di lana col collo alto e doppio ed un cappotto. Li ho portati indosso fino al 28 Aprile 1945, ormai laceri, a brandelli, come il tutto di me. Dal campo di ALTENGRABOO ci condussero al campo STAM LAGER XI A, nei pressi di Brandemburgo West, sempre sui soliti vagoni e la fabbrica dove ero destinato, fabbricava proprio questi vagoni in un paese chiamato “KIRCH-MOSER”: questo campo confinava con un altro campo occupato da prigionieri francesi, che erano trattati più umanamente in quanto considerati prigionieri di guerra, protetti dalla C.R.I., e tu
telati dal Trattato di Ginevra. Noi italiani invece, eravamo considerati dei “traditori”.
Le cucine, per i due campi erano ubicate dalla parte dei francesi, i recipienti che contenevano il nostro cibo passavano attraverso una porta comunicante, ma a noi arrivava la parte di cibo più scadente, forse a ruoli invertiti, vista la situazione avremmo fatto lo stesso.
I tedeschi ci dettero subito il benvenuto. Per due ore ci fecero stare sull'attenti, poi cominciarono un interminabile “sermone” ma la sola parola che sentivamo più spesso era “CAPUT”, infine ci fecero entrare nelle baracche. Queste erano costruite in legno, i nostri letti a “cas
tello” consistevano in una in
telaiatura in legno con tre pianali sovrapposti, il “materasso” consisteva in una stuoia fatta con della carta intrecciata, ci dettero anche una coperta per coprirci.
Tranne i vestiti che portavamo addosso, fummo spogliati di tutto l'equipaggiamento comprese le scarpe che furono sostituite con degli zoccoli in legno tipo olandesi.
I nostri piedi furono i primi ad essere “seviziati” perché i bordi di questi zoccoli producevano delle piaghe sul dorso dei piedi.
La notte passò in un continuo dormiveglia, non riuscivo ad intravvedere un domani. Cominciò la vita tra fabbrica e baracca. Alle ore 4,30 del mattino c'era la “sveglia” e dopo aver bevuto un bicchiere di acqua calda, di un colore indefinito che ci piaceva chiamare caffè, incolonnati e accompagnati da soldati armati, andavamo in fabbrica.
I turni duravano 12 ore, sia di giorno che di notte: era durissima.
Nel reparto dove lavoravo, c'erano alcune donne che facevano dei lavori pesanti, come pesanti erano le punizioni inflitte per qualunque comportamento ritenuto poco corretto.
Notai una ragazza tedesca, credo avesse la mia stessa età: si chiamava Gertrud, lavorava in coppia con un'altra che si chiamava Nina.
Nina invece era ucraina, ed era stata deportata come me. Passarono parecchi giorni prima che i nostri sguardi si incontrassero, poi avvenne più spesso, finché accennammo qualche timido sorriso.
La prudenza doveva essere assoluta.
Un giorno Gertrud, passandomi vicino, mi sussurrò: “Franz, tu mio grande amore”. Io rimasi impassibile, ma lei trovò la maniera per dirmelo altre volte. Il mio essere subì l'emozione che è naturale propria della gioventù, ma riuscii a reprimerla. La fame infinita che si era impadronita di me mi spinse a chiedere se le fosse stato possibile rimediare un po' di pane. A questa mia richiesta mi rispose sconsolata “ich caine brood” (io niente pane), ed io risposi, “caine brood, caine liebe” (niente pane, niente amore). Certamente questo mio comportamento mercenario era dovuto alla grande disperazione.
Con Nina fu diverso, come ho già accennato, era una deportata e soffriva la lontananza dei suoi cari, soffriva per le angustie quotidiane, con Lei provai un sentimento diverso.
Rischiammo grosso, perché qualche carezza e bacetto ce lo siamo scambiato, senza chiederle niente.
Dopo qualche giorno fui trasferito ad un altro reparto che troncò questi pochi momenti che mi facevano sentire vivo.
A pranzo ci mettevano sulla nostra bacinella mezzo litro di brodaglia, con qualche pezzo di patata o di carota, ma anche di rape essiccate, roba che non avrebbero mangiato neanche i maiali. La sera ci davano un filone di pane nero, credo fosse un chilo, che dovevamo dividere in sei porzioni. Nel sezionare questo pane si producevano un po' di molliche e per queste facemmo un patto: avremmo tagliato il pane a rotazione e colui che faceva le parti aveva il diritto al recupero delle molliche. La fatica e la fame ci rendeva sempre più deboli, la vista si annebbiava e per recuperare un po' di forze ci attardavamo in quelle schifose latrine ma al momento di rimetterci in piedi bisognava stare fermi qualche attimo per recuperare l'equilibrio.
Ribellarsi significava la fine; ci avrebbero spedito immediatamente nei campi di punizione dai quali non ho visto mai tornare neanche un prigioniero. Non ci era concesso neanche un attimo di riposo, altrimenti scattava la punizione, se la domenica non si lavorava in fabbrica, ci portavano alla stazione ferroviaria a scaricare i vagoni. Nei mesi di Giugno e Luglio, con le giornate più lunghe, alle 17,00 dopo la fine del turno in fabbrica, ci portavano per completare la giornata, a scavare le trincee para schegge, con pala e piccone, se non si faceva in tempo a finire l'opera si tornava la sera successiva e così di seguito. All'uscita dalla fabbrica se pioveva non potevamo camminare svelti, perché alle sentinelle dava fastidio, per noi camminare svelti significava bagnarsi di meno, visto che non avevamo vestiti di ricambio e calore per asciugare gli indumenti, loro potevano farlo, come dispetto a questo, per punizione, ci tenevano 10/15 minuti fermi sotto la pioggia, è successo molte volte, poiché loro invece si riparavano sotto le piante, l'unico motivo che mi viene in mente per questo comportamento sadico è che fosse la soddisfazione di vederci ridotti completamente impotenti e inermi. Bastava che trovassero un pezzetto di carta in terra per negarci la piccola quantità di sigarette, ma capitava anche di essere picchiati con tubi di gomma, senza capire il perché. A POLA incontrai alcuni miei concittadini, ma la stessa mia sorte l'abbiamo avuta in sette e abbiamo cercato di rimanere sempre insieme. Fummo trasferiti in più campi, la vita era sempre più dura, infatti da sette siamo rientrati in sei.
Bottali Sergio mi dormiva accanto, si lamentava “non gliela faccio più” al pomeriggio gli veniva un po' di febbre, gli consigliai di rimanere in baracca così l'avrebbero visitato. Aveva cominciato a gonfiarsi, e questo era un sintomo pericoloso; la sera, quando rientrai dal lavoro non lo trovai più: lo avevano portato al “Lazaret”. Di lui ho rivisto una piccola cassetta avvolta nel Tricolore portato da un militare nel Febbraio 1993 al cimitero di Terni.
Per scongiurare questa triste sorte ognuno escogitava qualche espediente per sottrarsi alla fatica con la speranza di recuperare un po' di energie. Io approfittai di un piccolo infortunio sul lavoro, mi ero ferito il dito medio della mano destra e rimasi in baracca, la mia mente però lavorava...tra noi c'era un tenente medico, gli chiesi se potevo sfruttare in qualche modo la ferita. Mi disse “dovresti rinunciare al cucchiaio di zucchero per questa settimana e alimentarci la ferita”. Non ci pensai due volte, misi subito in pratica il suo consiglio. Il dito peggiorava, era diventato grosso e giallo come una carota.
Andai avanti, così, per oltre un mese finché una sera venne da me, tutto agitato, un prigioniero come me che faceva da interprete (Zanelli) a dirmi che il comandante del campo si era accorto che io non lavoravo da parecchio tempo e cominciò a sbraitare “sabotaggio!! sabotaggio!!” e diceva che mi avrebbe mandato nel campo di punizione. Zanelli si prodigò in mio favore dicendo che stavo male davvero, che ero un bravo ragazzo, in fine prese una decisione: mi avrebbe portato a visitare da un medico privato alle ore otto del giorno dopo. Alle otto in punto venne a prendermi una sentinella armata. Il Comandante del campo andava avanti in bicicletta ed io e la sentinella trotterellavamo dietro a lui. Il dottore eseguì il suo lavoro senza troppi complimenti, a vivo, mi tenevano immobile la sentinella ed una infermiera, ripulì il mio dito dal “pus” e dopo una energica disinfettata e una fasciatura fui riportato al campo; dopo pochi giorni ripresi il mio posto in fabbrica. I comandanti dei campo venivano sostituiti spesso e si comportavano tutti alla stessa maniera verso di noi ma ci fu una eccezione. Ne ricordo uno, un Caporale che era tremendo; bastava un nonnulla per darci delle punizioni spropositate. Una notte entrò nella baracca sbraitando, quasi certamente ubriaco, cominciò con un idrante a bagnarci tutti, allagò il pavimento e ci fece alzare per asciugarlo con degli stracci. Verso la fine del conflitto venne a comandare il campo un Maresciallo, questo si comportò più umanamente con noi, ci disse che aveva un figlio al fronte e da parecchio tempo non aveva più sue notizie; forse per questo fu diverso nei nostri confronti.
Durante il turno di notte, cominciammo a sentire il rumore della battaglia, e giorno per giorno, si sentiva più distintamente. Erano i russi e i polacchi che si avvicinavano. Il mio concittadino Giovenali, mentre spingevamo un carrello carico di grosse tavole di legno mi esternò la sua intenzione di chiedere al “Maister” notizie sulla guerra, io rimasi titubante perché pensai potesse essere un rischio, ma il mio amico si fece coraggio e gli chiese a quanti chilometri stavano i russi. Questi si guardò tutto intorno e non vedendo nessuno con un dito scrisse sulla tavola coperta di neve (K25) poi con la mano cancellò.
Dopo quella mattina ci dava informazioni, spontaneamente, e pian piano il posto dell'angoscia fu preso dalla speranza di poter ritornare a casa. Io sono cresciuto in una famiglia modesta e sono stato un figlio unico, mai uscito da casa se non per andare alla scuola elementare, i miei studi si sono interrotti con la “QUINTA” classe ma, già quando frequentavo la “QUARTA” nel pomeriggio andavo anche a “BOTTEGA”. Era una falegnameria, la paga che prendevo mi permetteva di andare al cinema la domenica. Da giovanetto frequentavo la palestra di atletica e mi piaceva anche giocare a pallone.
Ricordo di essere salito su un treno che avevo 16 anni.
Un treno POPOLARE (TERNI-SENIGALLIA). A 19 anni appena compiuti, invece mi sono trovato solo ad affrontare questa difficile situazione.
Quante paure!!! quanti momenti di sconforto!!! pensavo ai miei genitori, agli amici, ai vicini di casa, ma dopo 2 anni di fame freddo e umiliazioni, per ricordare le loro fisionomie, dovevo concentrarmi. Era il giorno 25 Aprile (forse il venerdì o il sabato Santo) quando quella sera rientrammo al campo, inquadrati come sempre, i nostri aguzzini ci fecero salire frettolosamente sui soliti vagoni (saltò anche la porzione di pane). Viaggiammo tutta la notte, arrivammo in una stazione molto simile a quella di Milano. Il soffitto era sostenuto da enormi capriate in ferro, era grandissima.... era la stazione di Berlino. Mi saltò agli occhi l'orologio della stazione, lo ricordo ancora: era rotondo, grande, bordato con un cerchio nero, anche le lancette e i numeri “romani” erano neri.
Segnava le otto in punto. Si vociferava che ci avevano portato lì a fare le fosse anticarro. Speravano ancora di contrastare l'avanzata dei russi e dei polacchi. Ci trovammo in mezzo ad un caos indicibile, correvano tutti in tutte le direzioni. I tedeschi, incolonnati, ci portarono verso la parte dalla quale giungevano le cannonate. Cominciammo a gridare: vigliacchi!! vigliacchi!! dopo un po' ci accorgemmo che erano tutti spariti. Tra noi ci fu un momento di panico; eravamo rimasti in cinque, paradossalmente decidemmo di andare verso il fronte, e ci trovammo nella zona detta “di nessuno”. Arrivavano le cannonate da tutte le direzioni. Io mi trovai un riparo in una buca forse creata da una bomba, in mezzo ad un campo, poi mi accorsi di essere insieme al mio concittadino Pinzaglia. Pinzaglia era più anziano, la guerra la conosceva, l'aveva conosciuta in Africa, la sua presenza, in questa terribile occasione mi sembrò provvidenziale, mi sentivo quasi protetto. Ad un certo punto sentimmo un forte spostamento d'aria, fummo scaraventati addosso al tronco di un albero. Pinzaglia si rialzò da terra dolorante e scioccato, a me andò peggio. Cercai anch'io di rialzarmi ma ricadevo a terra, la mia gamba sinistra si intrise di sangue, la parte posteriore della mia coscia era a brandelli. Poco dopo passò un automezzo militare polacco, il mio amico non sapeva come arginare la ferita, chiese aiuto a quei militari polacchi, che con dei loro indumenti, mi fasciarono alla meglio, mi caricarono su quel mezzo e mi portarono in “ospedale”. Qui c'era una confusione incredibile, tanti feriti ed anche dei morti, mi trovarono un posticino. Quando arrivò il mio turno, fui lavato e liberato della “divisa” che oltre a me aveva dato riparo a un esercito di cimici e pidocchi per otre 22 mesi, e fui messo sopra una “pietra” in “sala operatoria”. Pinzaglia mi era rimasto accanto, parlò con il dottore per conoscere la gravità della ferita, spacciandosi per mio fra
tello. La risposta fu negativa: amputazione. Pinzaglia lo scongiurò di fare il possibile per evitare questa mutilazione data la mia giovane età, ma anche questa volta la risposta fu negativa: il mio amico era convinto che la mia gamba poteva essere salvata, visto che le dita del piede, se sollecitate, rispondevano. Pinzaglia, assumendosi una grossa responsabilità, mi portò in un altro posto. Era un ospedale improvvisato, forse una scuola. Qui il dottore condivise la sua tesi. Devo a lui se ancora oggi cammino con le mie gambe. Fece ancora di più, mi restò vicino nei momenti più critici e passava con me le notti, perché di giorno non era possibile entrare. Arrivò anche il momento della sua partenza e abbracciati provammo una grande commozione. Io rimasi in quell'ospedale sei lunghi mesi. I dottori e gli infermieri avevano tanto lavoro da fare, i mezzi a disposizione erano scarsi e inadeguati, le medicazioni venivano eseguite una volta alla settimana, le fasciature venivano fatte con una specie di carta igienica. Una notte cominciai a sentire nella gamba ferita un fastidio strano, più volte provai a penetrare con un dito fino al punto del fastidio ma non ci arrivavo, forzai un po' quella fasciatura di carta e finalmente sentii qualche cosa di estraneo, lo presi, non riuscivo a capire che cosa fosse, allora presi un fiammifero svedese e lo accesi: mi trovai tra le dita un verme biancastro. La mia mente cominciò a riempirsi di brutti pensieri. Piansi tutta la notte. Presi il verme e lo misi dentro la scatola dei fiammiferi. Alla vista del dottore per la visita giornaliera, quando mi chiese come mi sentissi, anziché rispondere cominciai a piangere e gli mostrai quello che avevo trovato. A quella vista accennò ad un sorriso poi con la mano mi scompigliò i capelli come si fa con un bambino, e mi spiegò che quelle “bestiole” che si nutrivano degli umori prodotti dalla ferita erano un bene perché le medicazioni venivano fatte a troppa distanza l'una dall'altra. Mi tranquillizzai e piano piano le forze ritornavano, la ferita migliorava; cominciai a scendere dal letto e finalmente arrivò anche il momento di camminare con il supporto delle stampelle, il morale cresceva, ero quasi certo di farcela. Mi piaceva cantare poiché avevo una discreta voce; un giorno mi venne proprio la voglia di farlo e lo feci. Cantai un successo del cantante Beniamino Gigli “MAMMA”. In un momento si riempì la camerata: dottori, infermieri e i degenti che potevano camminare.
Ci fu commozione e applausi, poi tutte le sere volevano che io cantassi.
Le giornate passavano, erano meno dure, non ero ancora guarito definitivamente quando volli rimpatriare. Seppi che cominciavano i contrasti tra i russi e le altre forze di occupazione e non volevo correre il rischio di non ritornare a casa.
Mi fecero indossare una divisa tedesca, lavata, alla quale erano state tolte le mostrine, le scarpe, anche se della stessa misura, erano diverse una dall'altra. Ormai, i convogli che riportavano a casa i prigionieri erano pochi. Mi indicarono un campo di “raccolta” nei pressi di Halle, ci restai qualche giorno, finché non fummo abbastanza per riempire la tradotta che ci portò fino al confine della zona occupata dai russi. Passammo alla zona occupata dagli americani.
Fummo rifocillati, ripuliti e disinfettati e diretti su di un altro convoglio che ci condusse al Brennero. Finalmente eravamo in ITALIA.
A Pescantina la C.R.I. Aveva organizzato un posto di “ristoro”, mi fu dato un abito da civile e qualche lira e con dei camion ci portarono fino a Bologna, in una caserma. Il giorno dopo ci divisero in gruppi secondo i luoghi di provenienza. Alla stazione di Bologna, finalmente, trovammo ad attenderci dei treni per viaggiatori.
Io salii su quello diretto al SUD. Scesi alla stazione di ROMA. Ebbi un po' di difficoltà per ritornare a TERNI, con il treno non fu possibile a causa delle linee disastrate. Domandando qua e là mi dissero che un autobus faceva un servizio di linea tra ROMA e CASCIA, passando per TERNI.
Riuscii a prenderlo e cominciò a battermi il cuore; stavo, ormai, vicino a casa. Mi fece male anche vedere la mia città distrutta dai bombardamenti. Scesi nei pressi del ponte Garibaldi aiutandomi con il bastone.
ERA LA SERA DELL'UNDICI NOVEMBRE DEL 1945.
Francesco Politi
P.S.: “27 Gennaio 2009”
Questa è una data di un giorno che mi ha prima riempito di “ORGOGLIO” e poi invece riservato una delle più cocenti amarezze della mia vita.
Mi riferisco più precisamente alla cerimonia che si svolse alla stessa ora in tutte le Prefetture d'Italia, per il giorno “Della Memoria”.
L'orgoglio era quello di fare parte di un gruppo ormai sparuto di ex militari che pensavo venissero in quella occasione ricordati ed omaggiati per tutti gli stenti ed i sacrifici vissuti e passati per onorare il giuramento di fedeltà e dedizione fatto alla “Bandiera a alla Patria”.
La cocente amarezza consisteva invece nel constatare che gli I.M.I. (Internati Militari Italiani) a distanza di oltre 60 anni non solo non erano per nulla menzionati, ma di più, ho avuto la tangibile sensazione che non fossero mai esistiti.
La medaglia che ho ricevuto, a conferma di quanto sopra espresso, è generica e non c'è nulla; né una scritta né una qualsiasi altra cosa che potesse riferirsi agli “I.M.I.”.
Questo è quanto mi premeva dire dopo tante riflessioni e con grandissimo dispiacere, fermo restando comunque da parte mia tutto il rispetto dovuto a tutti quegli Italiani anche civili che al contrario di me non hanno avuto la fortuna, perché di quello si tratta, di tornare.
Con stima e deferenza
Cav. Francesco Politi
Vicepresidente Anmig
e
Presidente Ass. Naz. Combattenti F.A.G.L.
Sezione di Terni
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Luigi Martinelli – dall’Albania alla Grecia
Estratto dal Diario di mio padre Luigi Martinelli
Mio padre nacque a Lazise, sponda veronese del lago di Garda il 18 aprile 1915 .
Per vari motivi non avrebbe dovuto fare il soldato, ma visti i venti di guerra, fu chiamato alle armi in fanteria il 3 aprile 1939 e destinato alla caserma Luigi Cadorna di Bolzano:
Dopo un periodo sulle montagne dell’Alto Adige, fu poi mandato in Piemonte e dai piedi del Moncenisio, la sua Compagnia fu una delle prime ad entrare in guerra, quando il 10 giugno del 1940 il duce dichiarò guerra alla Francia.
Il 20 giugno entrano in azione allo scoperto, mentre i Francesi erano trincerati dietro “forti e fortini inespugnabili”. La nebbia fece in modo che la sua Compagnia non venisse annientata, anche se i caduti delle altre furono moltissimi. Poi finalmente la Francia, stretta d’assedio dai tedeschi, dichiarò l’Armistizio il giorno 24 giugno 1940. Se la guerra fosse durata qualche giorno in più, il freddo, la fame e la fatica, se non le pallottole nemiche, avrebbero annientato un esercito di soldati mal equipaggiati e stremati. Perfino i muli cadevano per la fame e la fatica, oltre che per le pallottole, che piovevano su un esercito completamente allo scoperto.
Dopo giorni di manovre e tattiche di guerra, il 7 agosto arriva l’ordine di partire per portarsi ai confini con la Svizzera, perché sembrava che Italia e Germania volessero invadere lo Stato neutrale.
Dopo 3 mesi di tattiche di guerra, manovre, esercitazioni e lunghe marce di resistenza, i soldati sempre morti di fame e di sonno, l’Italia finalmente desiste dalla sciagurata idea di invadere la Svizzera e ritira le truppe dal confine.
Partenza per l’Albania
Dopo un permesso di 48 ore per riabbracciare la famiglia con le lacrime agli occhi e il cuore gonfio,
il 24 dicembre 1940, caricato su vagoni bestiame, dopo 2 giorni e 2 notti, arriva a Bari dove il giorno successivo, viene imbarcato su una piccola nave con altri 500 soldati, che solo per molta fortuna non caddero sotto le bombe dell’aviazione inglese, o perirono nella traversata di ben 25 ore col mare in burrasca e sempre in piedi come sardine a svuotare lo stomaco uno sull’altro.
In Albania da Durazzo comincia la dura salita verso il fronte.
Dal diario:
“Arrivati a Tepeleni, ci attendammo in una vallata piena di fango, poiché continuava a piovere, in attesa che arrivassero i muli che ci dovevano portare i cannoni in linea di fuoco.
Intanto cominciano ad armarci fino ai denti, nell’eventualità di qualche attacco nemico.
Ci danno un po’ di viveri di riserva: 5 scatolette di carne e 5 gallette.
Il giorno 8 gennaio 1941 di sera arrivano i muli e dopo aver someggiato i cannoni sui muli, pesante zaino in spalla, avanti per uno su una ripida mulattiera, comincia l’ascensione di un vero calvario.
Era una notte fredda e piovosa, lo zaino era piombo e le cinghie recidevano la pelle sotto la divisa, i panni inzuppati, ogni passo una fatica immensa, ma si saliva, anche pensando che molti di noi non sarebbero più scesi.
A mano a mano che si saliva, gli scoppi delle granate si facevano sempre più vicini mentre l’animo si riempiva sempre più di tristezza. Ma quello che più demoralizzava, erano i feriti che scendevano per la stessa mulattiera: molti gemevano per il male, altri trasportati sulle portantine, molti dei quali
non facevano in tempo ad arrivare al fondo valle, poiché la discesa durava dalle 10 alle 12 ore e spesso il povero ferito moriva dissanguato prima di arrivare all’ospedale da campo.
Altri feriti meno gravi scendevano caricati sui muli, altri zoppicando, ed erano quelli che mi colpivano di più, perché era una pena vederli scalzi nell’acqua e nel fango con i piedi gonfi come palloni per il congelamento. Insomma era una colonna di poveri disgraziati che saliva e una che scendeva, ma si vedeva che erano più contenti loro in quelle disperate condizioni, che noi a salire sani ad occupare il loro posto. Chiedevamo loro com’era la situazione lassù e loro rispondevano, con sorrisi di compassione, che ci potevamo ritenere fortunati se fossimo scesi nelle loro condizioni.
Dopo 10 ore di questa faticosa ascesa notturna, arriva l’ordine di fermarsi per riprendere la marcia la sera seguente, ma poco dopo esserci riparati alla meglio dalla pioggia coi
teli da tenda, il nostro breve riposo fu interrotto dagli scoppi improvvisi di bombe a mano e mitragliatrici. I Greci avevano sferrato un attacco ad una compagnia di Camicie nere, che subito dopo vedemmo scendere a precipizio in ritirata. Noi eravamo solo a qualche centinaio di metri e fra noi fu il panico, perché
ci scaricarono addosso raffiche di mitragliatrici e di fucili e noi allo scoperto non potevamo far altro che rimanere per tutto il giorno immobili dietro qualche spuntone di roccia, che in questo caso fu la nostra salvezza. La sera, in completo silenzio, si riparte per continuare la salita mentre il freddo diventava sempre più insopportabile e la pioggia diventava neve, nella quale si sprofondava e andare avanti diventava una fatica immane, mentre le cannonate piovevano sempre più vicine sul
sentiero per il quale dovevamo passare. Alle 4 di mattina arriviamo finalmente in linea più morti che vivi, ma riposarsi è impossibile perché se ti addormenti rischi il congelamento. …
Dopo esserci accampati fuori dal tiro nemico, ci vollero tre notti consecutive di lavoro per preparare le postazioni per i cannoni. La prima postazione fu la più sfortunata, perché fu proprio in quella che trovò la morte un uomo molto buono e generoso: il nostro Comandante di Plotone, Sottotenente Reggiani Bruno.
Era un grande uomo in tutti i sensi e cadde nel tentativo eroico di abbattere una postazione di mitragliatrici nemiche che sparavano continuamente su un nostro sentiero obbligato e scoperto, sul quale molti dei nostri erano già stati feriti. …
Tutto diventava insopportabile, il freddo, la fame e perfino la sete, il nemico che attaccava anche due volte al giorno, ma la nostra tenacia, il coraggio o la disperazione, non permetteva loro di guadagnare neanche un metro, anche se il prezzo erano i tanti soldati che cadevano sotto il fuoco incessante. … C’erano i turni di sentinella e allora la neve ti inzuppava da capo a piedi e così dovevi restare per giorni, perché non c’era modo di asciugarsi o di cambiarsi, per non parlare di quegli animaletti insidiosi (ce n’erano di rossi bianchi neri), che appena cercavi di assopirti cominciavano a passeggiare su tutto il corpo e a succhiarti il sangue.
“Come si può resistere in questo modo, come può un uomo sopportare a lungo tutto questo?”
Erano le domande che spesso ci facevamo, aggiungendo: “qua se non moriamo di piombo, moriremo di fame di freddo e di ogni altra sorta di sacrificio”.
Quante volte ci capitava di guardarci negli occhi pieni di lacrime senza riuscire a dirci una parola!
Perfino i muli erano morti di fame, di freddo o sotto i bombardamenti, o precipitati nei burroni e
dei più di trecento tra muli e cavalli sbarcati in Albania, ora ne restavano solamente una cinquantina.
Fu così che un terzo degli uomini di ogni Compagnia dovettero sostituire le bestie da soma per andare su e giù come muli e sotto il fuoco nemico per gli approvvigionamenti. Ed io fui tra questi. …A marzo eravamo ancora in prima linea e il sole faceva sciogliere la neve da dove piano piano spuntavano i cadaveri intatti dei caduti che stavano là sotto anche da 4 mesi. …
La sera del 12 aprile 1941 arriva finalmente il cambio e il morale comincia a sollevarsi, ma per poco, perché la sera del Venerdì Santo ricominciamo il nostro nuovo calvario, perché arriva l’ordine
di partire per sferrare l’offensiva finale.
Ancora pioggia, ancora neve su per quelle montagne! Ancora prima linea e cannoni. Dopo il secondo attacco riusciamo a sfondare la linea nemica su quasi tutto il fronte e fu così che la nostra avanzata si concluse con la nostra vittoria finale: 23 Aprile 1941 la Grecia chiede l’armistizio.
Ma a che prezzo tutto questo! …
Rimaniamo in Albania per qualche tempo ancora, ma con la segreta speranza che la nostra Divisione venga rimpatriata. Così non sarà, anzi arriva l’ordine di partire per la Grecia: 650 km a piedi! ( Per fortuna l’ultima parte si farà sui camion) …
Il 7 Giugno si parte! Anche stavolta si cammina di notte, ma solo perché è il caldo adesso ad essere insopportabile e la carenza di acqua. …
In Grecia si continua con marce, manovre, continue esercitazioni, tattiche di guerra fuori dagli accampamenti.
Intanto arriva l’inverno anche ad Atene dove stiamo presidiando.
Noi soldati riuscivamo appena a sopravvivere con le razioni sempre più scarse che ci davano.
Ma quei poveri abitanti di Atene non avevano proprio niente e vecchi e bambini morivano di fame.
Noi le vedevamo tutti i giorni quelle donne coi bambini affamati che ci chiedevano un pezzo di pane e a noi venivano le lacrime agli occhi a non poter fare niente visto che anche noi non ce la passavamo meglio. Si fa fatica anche a raccontarlo che la mattina il camion della nettezza urbana faceva il giro per le strade di Atene per raccogliere i morti di fame ma anche di freddo, perché neanche la legna per scaldarsi avevano. Perché oltre alla guerra ci si era messo anche il freddo e la neve, che da 10 anni non cadeva sulla città…
Arriviamo a Pasqua 1942, quando stavolta inizia il calvario della mia malattia.
Il lunedì di Pasqua arriva l’ordine di fare una marcia celere di resistenza, che più che una marcia era una corsa che sfiancava dei poveri soldati già molto provati. Il giorno successivo altra marcia sempre più lunga e veloce. Chi restava indietro, dicevano, rischiava di non andare a casa.
Poi addirittura altra marcia, ma questa trainando a mano i cannoni…che ad un certo punto della montagna per farli passare dovemmo caricare sulle spalle oltre allo zaino e al fucile. Ci dicevamo che volevano farci morire prima di andare a casa. …… Io cominciai ad avvertire forti dolori al cuore e non riuscivo più a mangiare, stavo sempre peggio, ma all’inizio non mi credevano, fino a quando per fortuna tornai a raggiungere il secondo Battaglione del mio Reggimento e qui l’ufficiale medico si accorse subito del mio stato di salute e mi mandò all’ospedale da campo 259 di Atene. Il 24 Maggio 1942 fu fatta la diagnosi: attacchi cardiaci e deperimento organico, ma dopo più di un mese non avevo ancora nessun miglioramento e così il 27 Giugno fui mandato in osservazione all’ospedale 536 dove in aggiunta mi trovarono la disfunzione del lobo destro della tiroide.
In questo stato di prostrazione totale, sia fisica che morale, avevo finalmente in mano il foglio di viaggio e sarei dovuto partire con la prima tradotta, se un ufficiale troppo attento alla mia divisa e poco alla mia povera persona, non mi avesse messo in punizione e fatto perdere la tradotta ritardando così il mio rientro di 15 giorni. L’umiliazione per l’offesa subita aggiunta al mio stato di salute non fecero che gettarmi nello sconforto più totale. Ero partito sano e robusto e ritornavo triste e debole, ammalato e demoralizzato.
Finalmente partii e dopo un lungo viaggio di 7 giorni, in tradotta attraverso Bulgaria, Croazia e Serbia, col rischio costante di essere attaccati dai partigiani di Tito, arrivai a Verona e da lì con la corriera a casa a Lazise.”
Papà scrisse un dettagliato diario della sua vita dalla nascita al suo rimpatrio dalla guerra, con meticolosa descrizione di luoghi, persone e tristi vicende di guerra.
Lo scrisse mentre si trovava a Battaglia Terme dove era stato ricoverato al suo rientro dalla Grecia
e dove cercava di riprendersi dalle numerose patologie anche quelle polmonari contratte su quelle tristi montagne.
Fece in modo che noi trovassimo il diario solo dopo la sua morte, avvenuta il 23 giugno 2009.
Nella sua lunga vita non parlò molto di quel triste periodo, ma io credo che le sue ferite nascoste siano state le più difficili da sanare.
Paola Martinelli
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Cesare Zonca – Inverno 1941 – “Quella tradotta…”
Dalla figlia Liliana al carissimo papà Cesare Zonca nato a Premosello classe 1916 – caporale maggiore del 54° reggimento fanteria – Decorato di Croce al “Merito di Guerra” - Insignito dell'onorificenza di “Cavaliere del lavoro”.
E' mancato alla veneranda età di 92 anni lasciando la moglie Iolanda e sei figli: Teresa, Liliana, Graziella, Gianni, Giovanna e Patrizia.
Questo “amarcord di vita” l'ho dedicato a papà per non calare il sipario sul mosaico dei suoi lunghi anni. Noi figli, ricordando, sentiremo sempre il suo cuore, tenuto sovente segreto e riconosceremo, oltre il sapore del silenzio, il molteplice sapore della vita.
“Nel 1937 fui arruolato militare di fanteria con la classe 1917 perché l'anno prima ero ancora studente. Il 10 giugno 1940 Mussolini, ottenuta dal Re Vittorio Emanuele III°, annuncia al popolo italiano che la dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna, sono già state consegnate ai rispettivi ambasciatori. Io, appartenente alla 5a Compagnia del 54° Fanteria di Novara, partii con il reggimento per Pinerolo ove sostammo circa una settimana per addestramenti. Quindi a piedi, in marcia per Sestriere, ove ammirai dall'esterno, l'albergo di lusso “Principe di Piemonte”. Dopo alcuni giorni scendemmo fino a Cesana Torinese da dove si può scorgere il colle Chaberton (mt.2.671) ed a sud il monte Janus, francese (mt.2.543). Giunsi al fronte una settimana prima dell'armistizio che fu firmato il 24 giugno 1940. Rimasi a presiedere con il 54° Fanteria fino ai primi di luglio tra il forte francese, il monte Janus ed il forte italiano, il monte Chaberton, passato alla Francia dopo la guerra. Dopo di che fummo inviati a Sacile (Pordenone) in attesa, secondo “Radio Scarpa”, di una guerra con la Jugoslavia. Il che non avvenne. Il 28 ottobre 1940 Mussolini dichiara guerra alla Grecia con un famoso discorso di cui ho ancora stampata nel cervello una tremenda frase: “E io vi dico che in sei mesi spezzeremo le reni alla Grecia”. Ma la non prevista resistenza greca, costrinse le truppe italiane a ripiegare fino a 80 km. da Valona.
A Sacile rimanemmo qualche tempo con escursioni sui colli vicini ove trovammo per terra ancora molti bossoli delle cartucce del fucile 91 della prima grande guerra del '15 - '18. Dopo di che tornammo nel novarese. Ma poiché il 54° Fanteria a Novara traboccava di richiamati e reclute, fummo alloggiati in un collegio deserto di una congregazione religiosa a Gozzano. Ivi rimanemmo fino ai primi di gennaio del 1941 poi partimmo in tradotta fino a Bari ed imbarcati sopra una nave, diretti al porto di Valona in Albania.
Quando giunsi in Albania, al fronte, circolava già la voce di “Radio Scarpa” di tenere duro perché in primavera i tedeschi avrebbero invaso i Balcani, come di fatto avvenne. Fummo subito inoltrati circa 10 km nell'interno per pochi giorni. Poiché anche i greci erano arrivati fino a 80 km. da Valona, fummo caricati su autocarri e portati fino a Dragoti sopra Tepeleni ove rimanemmo una settimana. Poi un giorno, ordine di partenza, di notte, per non essere avvistati dagli aerei greci, fino ad un alpetto poco lontano dal fronte e qui piantammo le tende in attesa di ordini. Neve, pioggia continua e tanto freddo. Dopo circa quattro giorni, una mattina i greci iniziarono un intenso bombardamento con i famosi mortai da 105. Un cannone da 75 del nostro battaglione fu centrato in pieno. Ordine di partenza immediata verso il fronte. Durante il cammino, sotto una balma, vedemmo i soldati della sesta e settima compagnia del 54° Fanteria, ammassati per terra tutti feriti. Arrivammo al fronte verso le undici, il Maggiore che comandava il battaglione, ci aspettava e subito dispose gli appostamenti perché i greci, durante la notte, erano arrivati in fondo alla valle e cercavano di salire verso di noi. Io e sette miei compagni fummo accostati dietro un muricciolo con l'ordine di far fuoco. Poiché i greci trovarono resistenza, subito sparirono altrove. Verso le quattro del pomeriggio, sbucò dal colle di fronte un aereo greco verso di noi. Alzai gli occhi in alto e vidi sganciare una bomba. Istintivamente mi appoggiai al muretto, ma subito dopo una tremenda scossa mi colpì il corpo e persi i sensi. Quando rinvenni, sentii un forte calore alla gamba sinistra, allungai la mano per sentire e la ritrassi sporca di sangue.
Guardai i miei compagni...tutti morti.
Poco dopo arrivò il Maggiore comandante il battaglione, guardò e disse “ragazzi, che macello!” e se ne andò. Non vidi mai nessun aereo italiano. Arrivarono poi due militi della 30a Legione di Novara. Mi portarono nella loro tenda e, vista la gravità della ferita, mi dissero: “adesso ti portiamo nell'infermeria del tuo reggimento”. Infermeria? Una casera ove rimasi per nove giorni per terra con tutti gli altri feriti. Finalmente il decimo giorno arrivò una squadra di porta feriti. In barella mi portarono giù in pianura in una tenda della Croce Rossa ove vidi con gioia un paesano: Bernardino Rossi del 53° Fanteria, morto poi in Russia nel 1944. L'ufficiale medico mi guardò subito la gamba ferita ed accortosi che la cancrena era fin sotto il ginocchio, mi spedì subito in autoambulanza al primo ospedaletto da campo ove giunsi nel pomeriggio. Verso sera inoltrata mi portarono in sala operatoria. Il chirurgo mi fece una puntura lombare, mi pose un
telo davanti agli occhi e iniziò ad amputare la gamba sinistra quattro dita sotto il ginocchio.
Non sentii null'altro che un leggero dolore. Terminato, mi tolsero il
telo che avevo davanti e vidi l'infermiere che portava via la gamba...Mi scesero dagli occhi le lacrime.
Alcuni giorni dopo fui portato all'ospedale militare di Valona. Rimasi una decina di giorni poi con una nave ospedale, sbarcato a Bari e ricoverato in ospedale militare. Dopo dieci giorni fui trasferito a Pescara alla clinica “Pierangeli”. Qui ebbi modo di conoscere la mamma che dopo circa un anno sposai e portai a Premosello. In seguito fui trasferito in altro ospedale a Pietra Ligure all'Istituto Santa Corona”. Ivi trovai ricoverati tre paesani: Augusto De Marchi ferito in Jugoslavia, Fermo Rossi e Alfonso Manera ricoverati per TBC ma ormai deceduti da sessant'anni”.
Il penoso racconto di papà terminò qui e mi pregò di ricordarmene per raccontarlo a chi avrebbe voluto sapere di lui: nipoti e pronipoti...desiderosi di sentir parlare del loro nonno Cesare e nonno bis che “ha fatto la guerra” e che non ne conoscono il vero significato se non quando guardano qualche immagine in TV senza rendersi conto della cruda realtà.
La perdita dell'arto inferiore sinistro, fu una fortuna (se così si può dire...) per papà perché scampò la partenza per l'indescrivibile e tremenda guerra sul fronte russo.
Per ben tre volte ebbe salva la vita: 1. Dopo il bombardamento aereo greco, l'unico salvo tra i suoi compagni. 2. Dopo lo sbarco a Bari per essere ricoverato all'ospedale militare, la nave ospedale che lo aveva trasportato al ritorno è stata affondata. 3. La non partenza sul fronte russo dal quale pochissimi tornarono a casa.
Con infinito affetto...
Liliana Zonca
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Nandina e Torello
Questa è la storia della guerra vissuta da me, Ferdinanda Lupi, e soprattutto da mio marito, Torello Perini, che stette prigioniero e ammalato in Grecia per un lungo periodo.
Il paese in cui sono nata si chiama Ceppato, è un piccolo paese in collina nel comune di Casciana Terme (PI). Anche mio marito Torello era di lì, però ci siamo conosciuti dopo la guerra, nel 1946.
Torello dal 1933 entrò nell'arma dei Carabinieri. Questo lavoro gli diede grandi soddisfazioni. Fu trasferito spesso in diverse città. Ricordo il suo racconto di quando si trovava a Ravenna e ci fu una grande alluvione. Dovettero intervenire in molti per salvare la popolazione. Lui trovò una piccola barca e salvò molta gente. Così gli fu concesso un encomio solenne.
Nel 1939 scoppiò la guerra: io vivevo ancora con i miei genitori in una casa di campagna, Torello fu arruolato. Mi ricordo che tanti nostri conoscenti e parenti soldati andarono a combattere prima sul confine della Francia e dopo in Grecia, in Albania, in Russia. Pochi tornarono dalla guerra, mio marito fu tra quei pochi.
Torello, dopo 6 o 7 mesi dall'inizio della guerra, fu trasferito in Grecia dove i tedeschi lo fecero prigioniero. Lì era proprio un inferno, morivano di fame. Tutte le mattine passava il camion della spazzatura e prendeva i cadaveri. Vedendo la fine che tutti facevano, mio marito tentò di scappare. A Dio piacque e ce la fece, anche se gli sparano ma riuscì a rintanarsi in una fossa e a salvarsi. Da quel momento in poi fu come un cane randagio per le montagne greche, non trovava nulla da mangiare, solo sterco di ciuchi che conservava in un bidone e mangiava su su.
Una volta camminando di notte per la campagna vide un campo di cavoli: andò a coglierli e da lì ebbe inizio la sua fortuna. Infatti lo vide il contadino e gli chiese come mai si trovasse in quelle condizioni. Torello disse che era un prigioniero scappato. Il contadino, sentendolo parlare, capì che era italiano. Lo abbracciò e gli disse: «anche io sono italiano. Non posso portarti a casa mia perché i tedeschi ci ammazzerebbero tutti, però ti metto nel casotto del mio terreno e ci metto dentro tanta paglia in modo che tu possa rifugiarti lì».
La mattina il contadino gli portava latte e medicine, perché Torello si era ammalato di tubercolosi.
Se lo potessi rintracciare vorrei ringraziarlo ancora.
Con il tempo la malattia si aggravò, quindi decise di andare all'ospedale, dove però non lo ricevettero perché non aveva febbre. Torello non ce la faceva più e si sedette per terra davanti all'ospedale. Dopo un po' di tempo passò da lì un infermiere che gli chiese che cosa ci facesse lì, mio marito disse: «guarda in che condizioni sono! Se sono ancora vivo è solo perché ho trovato un italiano che mi ha assistito!». Anche l'infermiere era italiano e lo fece ricoverare subito. Torello pianse e disse: «il mio angelo custode mi assiste».
Fu ricoverato diversi mesi finché un giorno arrivò la bella notizia che tutti i soldati italiani malati dovevano rimpatriare con la nave ospedaliera.
Così Torello tornò in Italia. A casa trovò la sua mamma vecchia e intorno tanta miseria.
L'Italia infatti era stata invasa dai tedeschi che venivano a rubare nelle case rame e oro, si portavano via anche le fedi. Rubavano anche maiali, mucche, polli e tutto quello che trovavano. Avevamo paura anche a causa dei bombardamenti, infatti venivano bombardate – oltre alle città – anche le campagne, piene di sfollati dalle città. Mi ricordo che in casa, nonostante fosse piccola, ospitammo più di 20 rifugiati. La sera e ogni volta che c'erano i bombardamenti andavamo tutti nei rifugi sotterranei. Sono stati 4 anni duri e lunghi.
In quegli anni mi capitò di lavorare in casa di una signora anziana, dovevo farle compagnia. Una mattina vennero alla porta due fascisti con le pistole puntate alla faccia. Mi dissero: «vogliamo i soldi». Io gli dissi che soldi non ne avevo e nemmno la signora anziana. Riconobbi uno dei due fascisti e gli ricordai che, se i suoi 4 figli erano ancora vivi, era grazie al mio babbo che gli mandava ogni giorno un fiasco di latte gratuito. Lui capì chi ero e buttò giù la pistola e se ne andarono. Avevo solo 18 anni.
Quando Torello rientrò dalla Grecia si fece curare da un bravissimo professore, di nome Lauschi, che gli disse «fai come ti dico io e vedrai che guarirai. Non ti preoccupare dei soldi perché io non voglio nulla».
Dato che era malato poteva permettersi soltanto qualche lavoretto leggero, necessario per comprarsi da mangiare. Dopo diversi anni il bravo professore lo guarì dalla sua brutta malattia. Nonostante questo non aveva le forze per lavorare molto e la pensione di guerrà arrivò 15 anni dopo.
La nostra vita anche dopo la guerra fu dura, anche se non ci siamo mai persi di coraggio. Quando non poteva lavorare lui io mi sono inventata qualsiasi lavoro pur di mantenere la famiglia e insieme ce l'abbiamo fatta. Io ho assistito tante volte Torello che era cagionevole di salute a causa della malattia che aveva preso in guerra. L'ho assistito fino all'ultimo giorno, quando nel 1998, all'età di 85 anni, mi ha lasciata.
Ancora oggi io, a 93 anni, non ho perso lo spirito combattivo che avevo da giovane e credo ancora nella possbilità di un mondo migliore per tutti.
Nandina
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Caporal Picen
Ricordiamo nostro padre, Celeste Nava nato a Sesto S. Giovanni (MI) il 12 Aprile 1897.
Arruolato e spedito al fronte il 21 settembre 1916, prima in servizio al 62° fanteria, poi trasferito al 67° Reggimento di Udine.
Veniva chiamato “caporal Picen” in quanto alto 1,57, poco piu’ del Re Vittorio Emanuele III.
Il 28 Agosto 1917 rimase ferito nella battaglia a San Gabriele, sul costone Veliki Koribak, zona del carso, (ove Gabriele D’Annunzio piantò la bandiera tricolore, prima della disfatta di Caporetto). Questi scontri bellici vennero riportati nella cronaca di guerra, sull’edizione del Corriere della Sera del 16 settembre 1917, e citati come i “quaranta minuti storici e tragici del conflitto”.
Raccontava infatti che comandava da caporale un piccolo plotone d’assalto, e quel giorno, sulle pietraie del San Gabriele, gli fu ordinato dal suo tenente di portarsi sul costone Veliki e tenerlo.
“Sembrava la fine del mondo” disse, “ cadevano bombe e granate da tutte le parti, anche dagli aerei”.
Lui rimase ferito e non riuscì a rialzarsi da terra. Passavano le pattuglie italiane portaferiti, ma nessuno lo voleva trasportare, dicevano che era spacciato.
Fu soccorso da una pattuglia inglese e portato nel loro ospedale a Gorizia, ove gli venne subito amputato il braccio destro che era a penzoloni, poi per il pericolo di cancrena gli venne amputata anche la gamba sinistra; riscontrarono presenze di schegge metalliche nella gamba destra, ma in quest’ultimo caso fortunatamente curarono le ferite con delle medicazioni.
Sua mamma (nonna Adelina) sfidò i pericoli della guerra andando a trovarlo all’ospedale militare (Gorizia era zona di combattimenti); si commosse nel vedere suo figlio cosi’ ridotto, e ringrazio’ il buon Dio di avergli salvato la vita, e gli inglesi che lo stavano assistendo. La sua giovane età (21 anni) e la sua forza di volontà gli permisero di sopravvivere.
Ci fu la famosa ritirata di Caporetto, non tutti i feriti riuscirono a fuggire, rimase con gli altri invalidi nell’ospedale inglese, arrivarono gli austriaci e li fecero prigionieri. Venne portato nel campo di concentramento di Mauthausen che divenne successivamente il triste lagher nazista.
La ritirata si fermò nelle valli dell’Isonzo, dal Grappa fino al Piave, dove i nostri italiani combatterono e vinsero.
Alla fine del conflitto, fu liberato e trasferito “con una tradotta”, da Mauthausen a Como, centro di accoglienza e smistamento dei superstiti.
Nel 1922 venne insignito con diversi attestati e decorazioni, croci al merito di guerra e medaglie di bronzo, (con effigie del Re Vittorio Emanuele III) e distintivo di ricompensa da portare sempre al petto.
Nonostante la sua mutilazione si inserì nella vita attiva, imparando a scrivere con la mano sinistra, e a camminare mediante un apparecchio ortopedico.
Viene assunto come centralinista
telefonico in un’industria chimica milanese (la Carlo Erba) ove lavorò per circa quarant’anni.
Sposa nel 1929 una sublime donna che gli darà tre figli. Compagna fedele, paziente infermiera e accompagnatrice, dotata di altruismo e senso di abnegazione, instancabile. Sempre pronta ad aiutarlo per tutto quello che poteva servire ad alleviargli disagi e dolori.
Il loro viaggio di nozze lo fecero proprio nella zona del Carso ove rivisse e ricordò i luoghi della sua guerra.
Nel 1969, come altri fanti della guerra 15/18 fu nominato “Cavaliere di Vittorio Veneto”, fu orgoglioso di questo riconoscimento, così come di portare al petto la medaglia d’oro e la croce di guerra al merito.
Nel 1976, a causa delle schegge mai rimosse, si sono riaperte le ferite, causa di dolorose fistole sul moncone della gamba sinistra. E’ costretto su una carrozzina, non potendo piu’ portare l’apparecchio ortopedico.
Nel Dicembre del 1977 la moglie, stanca fisicamente, è mancata.
I tre figli, avuti durante la sua vita travagliata, nel frattempo lo avevano reso nonno; una delle figlie si prende l’incarico di assisterlo amorevolmente fino al 1985, quando dopo estenuanti sofferenze, raggiunge la sua amata consorte.
Noi figli ricordiamo che è riuscito a superare le difficoltà anche dell’ultimo conflitto bellico, riuscendo persino ad aiutare i partigiani nella zone delle montagne del varesotto, dove eramo sfollati.
Quando veniva chiamato per partecipare a qualche ricorrenza particolare ne andava orgoglioso, sempre fiero di aver servito la Patria con onore.
Conserviamo ancora in un piccolo astuccio d’argento con coccarda tricolore un frammento della scheggia estratta dalla coscia della gamba destra. Le mutilazioni gli hanno reso la vita molto difficile, ma nonostante questo non ha mai inveito contro la malasorte.
Ricordiamo con questo scritto i Cavalieri d’Italia e di Vittorio Veneto, a tutti questi valorosi senza macchia e senza paura vada la riconoscenza infinita degli italiani.
Conserviamone la memoria , in nome di un ideale, si sono sacrificati o sono rimasti invalidi per il resto della loro vita.
I figli Giuseppe, Costanza e Agnese
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Antonio Flamini – campagna di Grecia 1940 – 41
La mia avventura di militare, densa poi di drammatici episodi, inizia con il normale servizio di leva presso il 9° Reggimento Bersaglieri di Tarvisio.
Richiamato alle armi, il 28 maggio 1940, venni assegnato al 2° Reggimento Bersaglieri Ciclisti di Roma dove il reparto apprese con profonda preoccupazione che l'Italia dichiarava guerra alla Francia ed al Regno Unito, nostri ex alleati nel precedente conflitto 1915/18.
Dopo breve addestramento in Roma venimmo trasferiti a Brindisi, destinazione Valona (Albania) per raggiungere la zona di guerra in territorio greco.
Il duce aveva deciso, contro il parere del suo stesso Stato Maggiore, di aggredire proditoriamente la nostra vicina e pacifica Grecia, tuonando con ripugnante retorica “spezzeremo le reni alla Grecia”.
Il reparto raggiunse la linea del fronte il 16 novembre 1940 nella zona di Krionero con l'obiettivo di avanzare in profondità ed occupare l'importante centro di Giannina.
Dopo lo sbarco a Valona ed il travagliato trasferimento in zona di guerra ci rendemmo subito conto che la facile avanzata che ci era stata vergognosamente propagandata era pura illusione, visto lo stato di impraticabilità delle strade locali, coperte di fango, e la nostra assoluta insufficienza sia di armamenti che di organizzazione.
I greci dimostrarono subito una grande volontà di battersi ed opposero, appoggiati da posizioni ben preparate e presidiate, una accanita resistenza; difendevano giustamente con coraggio la loro Patria.
La notte del 18 novembre, verso le 22, il mio battaglione ricevette l'ordine di espugnare un munito trincerone nemico situato circa trecento metri sopra la nostra linea.
Il Capitano Mario Fascetti mio comandante di compagnia, dopo averci rivolto parole di forte incitamento, ordinò di inastare le baionette in quanto l'azione prevedeva un rapido e risolutivo assalto all'arma bianca.
Ricevemmo inoltre l’ordine di togliere i piumetti dai nostri elmetti e di nasconderli sotto la giubba perché i greci detestavano i bersaglieri in quanto li ritenevano corpo scelto molto combattivo.
L’attacco fu violentissimo, come uscimmo di corsa dalla nostra trincea per giungere a rapido contatto col nemico, fummo dubito investiti da una violenta reazione di fucileria, mitragliatrici e mortai.
Appena giunsi a ridosso del caposaldo nemico fui colpito da una fucilata che penetrò poco sopra la clavicola destra, attraversò miracolosamente, senza ledere organi vitali, il polmone sinistro per poi uscire dal fianco sottostante; ricordo ancora con perfetta lucidità la vampa del proiettile che usciva dal fucile del soldato greco, lontano da me non più di tre/quattro metri.
Caddi subito all’indietro e sul momento non accusai forte dolore ma poco dopo fui nell’impossibilità di muovermi, perdevo molto sangue dalla bocca e fui assalito da una febbre violenta e sete insopportabile.
Così passai la notte del 18/19/11/1940 con al mio fianco il capitano Fascetti morto, poi decorato con Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, ed altri miei compagni che avevano trovato purtroppo la medesima triste sorte.
Il mattino seguente soldati greci in ricognizione sul luogo della battaglia notarono un mio movimento, alzai con fatica un braccio in segno di soccorso e subito mi puntarono contro le armi, mi insultarono, mi percossero imprecando Mussolini “chiarata”, in italiano “cornuto”.
Il mio ferimento e la cattura decisero drammaticamente la mia militanza con l’amato 2° reggimento bersaglieri ciclisti, che fu poi protagonista di eroiche battaglie, per poi concludere la sua odissea, dopo l’8 settembre 1943, con la prigionia in Germania; ma questa è un’altra storia che merita la testimonianza di qualche protagonista ancora vivente.
Passato il primo brutto incontro con gli avversari, senza aver mai perso conoscenza, fui avviato a piedi, sorretto da due soldati greci, in quanto ero completamente sfinito e con la febbre altissima, ad un loro posto di medicazione lontano oltre un chilometro dal punto del mio ferimento.
Appena giunsi in quella piccola infermeria fui adagiato su un misero lettino per una prima sommaria medicazione, solo con tintura di iodio perché non avevano altri medicinali e fui spogliato dei miei indumenti coperti di sangue.
Il mio piumetto da bersagliere venne allora scoperto, accorse, udendo le grida degli infermieri, un capitano greco, che tra l’altro parlava bene l’italiano, il quale, coprendomi di insulti, estrasse la pistola e me la puntò alla fronte minacciando di uccidermi.
Fu un momento drammatico, il capitano era fuori di sé perché vedeva in me uno degli esecutori di un’ignobile aggressione, che sempre deprecai e tuttora condanno, ma alla quale purtroppo il dovere mi chiamò a partecipare.
Ero in una condizione di profonda prostrazione, ma pur non potendomi quasi muovere dal dolore, strinsi il mio caro piumetto con la mano destra sopra il mio petto, fissando il capitano negli occhi senza mai abbassare lo sguardo, quasi sfidandolo ad uccidermi. Ci guardammo intensamente per un tempo che non so quantificare.
L’avversario non osò strapparmi il piumetto dalla mano, avevo perso ogni senso di paura, anzi, la forte tensione emotiva esercitò quasi un certo sollievo sui miei lancinanti dolori. In quel momento, se avesse sparato, sarei morto serenamente, avevo vinto la mia piccola battaglia e la consapevolezza di aver compiuto il mio dovere mi fu di estremo conforto.
L’ufficiale greco, sempre imprecando contro Mussolini, ripose la pistola nella fondina e si allontanò, lasciandomi solo con i miei pensieri; la giovane sposa, i genitori, il reggimento lasciato con dolore, il campiello sulle verdi dolci colline marchigiane che era il mio piccolo paradiso, l’incerto destino che mi attendeva e gli atroci dolori che al momento mi tormentavano.
Il giorno successivo fui trasferito all’ospedale militare di Giannina e, poiché dopo una ventina di giorni le mie condizioni migliorarono, fui deportato in un campo di concentramento per prigionieri di guerra nell’isola di Creta, vigilato da soldati inglesi.
Il destino aveva deciso che non dovessi morire, infatti la mia guarigione fu quasi spontanea, avevo ricevuto in quel periodo solo modeste medicazioni con la solita tintura di iodio.
Anche nella nuova sede la guerra voleva la sua parte di pericolo e di morte.
Il campo di prigionia e la zona limitrofa furono oggetto, dopo alcuni giorni, di un violentissimo attacco aereo tedesco che fece gravissimi danni e morti ed io mi salvai ancora una volta perché scorsi, in quegli attimi terribili, una cavità sotto una grande pietra dove fortunatamente potei rannicchiarmi.
L’inverno sul fronte greco fu terribile, temperature di 20/30 gradi sotto zero, senza equipaggiamento adeguato, avemmo più di ventimila congelati e Mussolini, nel tepore del suo Palazzo Venezia, contornato da imboscati e da “pregiata” compagnia femminile, dichiarava vergognosamente: “i soldati muoiono sul fronte greco, meglio, resteranno i migliori, così finalmente gli italiani diverranno una razza guerriera”. Liberati dai soldati italiani e tedeschi che occuparono l’isola di Creta, unitamente a tutti i miei compagni di prigionia, finalmente ritrovammo il caro suolo della Patria; sbarco a Brindisi il 13/6/1941.
Dopo l’arrivo a Brindisi fummo trasferiti a Tuturano per una contumacia di venti giorni, finita la quale venimmo interrogati singolarmente per accertare i motivi della nostra prigionia. Per noi feriti si trattò di una semplice formalità mentre per gli altri fu una severa ed approfondita indagine sul come e dove fossero stati fatti prigionieri.
Successivamente fui destinato a Marsiglia; dopo un lungo periodo di ricoveri ospedalieri e licenze perché il mio fisico aveva bisogno di un adeguato recupero.
Di quella sede ricordo il rancio pasquale dell’anno 1943 con minestrone guarnito di vermi ed altre porcherie: da questo piccolo episodio si può capire quali fossero le condizioni del nostro esercito in quella guerra.
Dopo circa un mese, altro trasferimento al deposito del 3° Reggimento Bersaglieri di Milano dove rimasi fino all’8 settembre 1943 quando purtroppo l’Italia dovette dichiarare la resa e subire altri diciotto mesi di occupazione tedesca e di sofferenze.
Sono ormai prossimo ai 100 anni, che non avrei mai immaginato di poter raggiungere, lamia mente fortunatamente è ancora lucida e posso ricordare con orgoglio il mio passato di bersagliere, dimenticando le grandi sofferenze e i pericoli patiti per amore del io Paese e del Corpo dei bersaglieri, al quale credo di aver dato con coscienza, senza alcuna riserva, tutte le mie giovanili potenziali energie.
Non posso però tacere che ricevetti, sul piano umano, molto anche nel tempo di guerra, cioè la considerazione dei miei superiori, il mio capitano Fascetti e l’amico tenente Brunelli di Civitanova Marche restano incancellabili nella mia memoria così come l’affetto fraterno dei miei commilitoni.
Successivamente e tuttora sono stato e sono sempre gratificato, oltre i miei meriti, dall’affettuosa ed esemplare vicinanza degli amici bersaglieri della sezione di Fermo e della Presidenza regionale, che ringrazio con viva riconoscenza per avermi anche voluto onorare con un solenne attestato di “Bersagliere Benemerito”.
Un ulteriore particolare e grato ringraziamento debbo rivolgere, infine, al caro amico Pierluigi Mercuri, presidente della sezione di Fermo, che ha voluto gentilmente raccogliere e far conoscere queste mie memorie di guerra.
Bersagliere Antonio Flamini
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L’artigliere Spinoso eroico pompiere
Per onorare la memoria di mio padre, Antonino Spinoso, scomparso a 68 anni, ho scelto, tra le tante, questa testimonianza, che si discosta un po' dagli altri racconti di guerra dei protagonisti del secondo conflitto mondiale, proprio per lanciare un segnale alle nuove generazioni sul valore che i militari rivestono, anche in tempo di pace, nel fornire aiuto e sostegno a tutta la società civile. Desidero ricordare mio padre raccontando uno dei tanti episodi della sua vita militare che sono rimasti scolpiti nella mia memoria e che hanno contribuito, in maniera fondamentale, alla mia formazione di cittadino italiano che crede ancora al valore della Patria in cui vive.
Con inestinguibile affetto il figlio
Vito
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il sergente maggiore Antonino Spinoso, impegnato con la compagnia di artiglieri di appartenenza sul “fronte slavo” (un segmento del secondo conflitto mondiale che meriterebbe una maggiore attenzione e conoscenza) si ritrovò a vivere quel momento di smarrimento e anche di confusione che interessò tutte le forze armate italiane.
Il comandante della compagnia radunò i suoi ufficiali, sottufficiali e militari di truppa, confidando loro di essere in attesa di ordini precisi, direttamente dal Governo, prefigurando già l'ipotesi di continuare la lotta su un doppio fronte, fronteggiare l'attacco orientale dei partigiani di Tito e contrastare l'inevitabile reazione degli ex alleati tedeschi. Tale impegno sarebbe stato affrontato, su rassicurazione del comandante, con l'attribuzione della qualifica di “Patriota” (qualifica riconosciuta anche a mio padre che gli valse due anni di campagna di guerra). Sul momento, tuttavia, in attesa dei suddetti ordini, il suggerimento, a tutti i militari, fu quello di trovare un momentaneo rifugio per consentire la riorganizzazione delle forze.
Mio padre, fermo nel suo sentimento di continuare a combatter per l'onore della Patria e la difesa del territorio della nazione italiana, decise, per quella fase di tempo, di recarsi a piedi a Trieste, dove conosceva una professoressa tedesca, di lingua madre, che lì insegnava.
A lei, Professoressa Pina Lutz, devo il ringraziamento che estendo, in queste pagine, per aver salvato mio padre dai rastrellamenti tedeschi che, sin da subito, colpirono i militari italiani.
La Professoressa Lutz fornì al Sergente maggiore Spinoso abiti civili e, per non destare sospetti, riuscì a farlo inserire nell'organico dei Vigili del Fuoco di Trieste.
In tale veste, pur essendo un artigliere, il neo-vigile del fuoco si prodigò, con massimo impegno, in tutte le emergenze che si presentavano e non furono poche, in considerazione dello stato d'assedio che viveva la Città di Trieste in quel periodo.
Ovviamente, il comandante dei Vigili del Fuoco cercava di limitare gli interventi di mio padre ai livelli più bassi degli edifici in fiamme, infatti gli interventi dell'epoca non prevedeva no certo meccanismi automatizzati (autoscala), bensì l'utilizzo di più scale che ogni singolo vigile ancorava alle proprie spalle, per innestarle una sull'altra, fino a raggiungere l'altezza necessaria per prestare soccorso alle persone ancora all'interno dell'abitazione.
Mio padre, si era sempre limitato, per ordine del comandante, a raggiungere soltanto quei livelli che consentivano l'innesto della seconda scala.
Un giorno, però, durante un'emergenza particolarmente impegnativa, che aveva visto il dispiegamento dell'intera squadra d’intervento, mio padre si trovò ad affrontare, da solo, un'ala dell'edificio in fiamme e mentre aveva già innestato la seconda scala sentì, distintamente, le urla di un bambino provenire dal piano superiore a quello dove si trovava; il momento fu realmente drammatico, in quanto, per raggiungere il bambino, occorreva l'innesto della terza scala, operazione mai effettuata e resa difficoltosa, ancor più, dalle raffiche di vento che imperversavano, ben note in quel territorio e che facevano ondeggiare già le due scale inserite.
La decisione doveva, comunque, essere presa in pochi secondi, prima che le fiamme si propagassero ulteriormente, fu in quell'istante che l'artigliere Antonino Spinoso si rese conto che il primo dovere di un militare è quello di difendere e salvare vite in pericolo, la terza scala fu innestata e nell'attimo successivo veniva raggiunto il bambino che, a mani protese, si lanciò, letteralmente, tra le braccia di mio padre che, assicuratolo sulle sue spalle, ormai libere, lo portò sano e salvo a terra per affidarlo ai suoi familiari, i quali senza dire nulla abbracciarono quel vigile del fuoco che aveva rischiato la vita per salvare quella del loro fanciullo.
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La lunga guerra del soldato Scalvini
Angelo Scalvini, soldato della Divisione Acqui, ha pubblicato il proprio diario degli anni che vanno dal 1943 al 1945 per i tipi della Mursia con il titolo “Prigioniero a Cefalonia”.
Nato a Calcinato, nei pressi di Brescia, scampò all'eccidio della Divisione Acqui nel 1943, fu fatto prigioniero dai tedeschi e liberato dai russi solo dopo la fine della guerra.
Da anni si dedica a raccogliere materiale e testimonianze su una delle pagine più buie della storia militare italiana.
Di seguito pubblichiamo il prologo al suo racconto.
La mia partenza per il fronte avviene esattamente il 13 gennaio 1943. Ma facciamo un passo indietro per poter capire come fossi già inserito, psicologicamente, nell'atmosfera della guerra che oramai, da anni, sta coinvolgendo il nostro Paese.
Vicino a casa mia c'era un calzolaio, che tutti chiamavano familiarmente «Pineto» (classe 1888), nella cui bottega si affacciavano i ragazzi della mia età nella speranza di ricevere l'incarico di andargli a comperare qualche sigaretta perché la ricompensa consisteva nella «ricca» mancia di un centesimo.
Così, un giorno, verso la fine di ottobre del 1935, andai anch'io ad acquistare le sigarette giornaliere ricevendone, in cambio, la solita ricompensa. Quel giorno, però, qualcosa di diverso attirò la mia curiosità e precisamente il «Corriere della Sera» che parlava della guerra di Etiopia. Lessi avidamente le notizie riportate finché «Pineto», che si era accorto del mio interesse al riguardo, mi disse: «Se vuoi saper qualcosa di più preciso leggiti il bollettino di guerra n° 19». Da quel giorno cominciai a interessarmi sempre di più dell'andamento di quella campagna in suolo africano e ne seguii le vicissitudini sino al termine e, precisamente, sino ai primi di maggio del 1936. Terminata la guerra di Etiopia il mio interesse si spostò su calcio e ciclismo e anche di questo parlavo sovente con «Pineto».
Oramai io e «Pineto» eravamo diventati amici, parlavamo un po' di tutto ma, soprattutto, di quell'atmosfera bellica che continuava ad aleggiare sopra di noi. Trascorsero così, abbastanza tranquillamente, gli anni successivi: 1937-1938-1939. Man mano che il tempo passava, i nostri colloqui si facevano sempre più infervorati circa le «voci» di un'imminente guerra da parte della Germania. «Pineto», da parte sua, mi teneva minuziosamente al corrente sulle «classi» che, via via, venivano richiamate sotto le armi per le «grandi manovre» estive della durata di quaranta giorni.
Improvvisamente, ai primi di agosto del 1939, venne a trovarci, dalla Francia, una mia zia con i suoi due figlioli e anche lei raccontava che, dalle sue parti, si parlava, oramai, solo di guerra. Ogni cinque o sei giorni riceveva notizie dal marito che era dovuto rimanere in Francia proprio per il pericolo incombente. Ed ecco che, improvvisamente, il 20 agosto, dopo aver ricevuto l'ennesima lettera, la zia ci mise al corrente che, secondo suo marito, le cose stavano precipitando e partì, in tutta fretta, per fare ritorno a casa. Dopo pochi giorni, esattamente il primo settembre 1939, la Germania invase la Polonia ed ebbe così inizio la seconda guerra mondiale!
Al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale il governo italiano aveva dichiarato la «non belligeranza» che era consigliata dalle precarie condizioni delle nostre forze armate dopo le «campagne» di Etiopia e Spagna. Gravi carenze, infatti, esistevano, nel 1939, nella nostra organizzazione militare.
In campo politico si erano fatti sempre più stretti rapporti con la Germania, rapporti che portavano l'Italia a scivolare, inevitabilmente, verso l'intervento.
Già, anche perché la nostra equivoca «non belligeranza» non aveva del tutto convinto gli «alleati» che avevano prudentemente deciso di tenere vincolate notevoli aliquote delle loro forze nel Mediterraneo e in Africa, anche perché si andava evidenziando, sempre di più, l'avvicinamento italo-tedesco. Le pressioni del Führer su Mussolini si facevano sempre più «pesanti» ed ecco che il 10 giugno 1940 il Duce dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra: la «folle avventura» era cominciata!
E proprio verso la sera del nostro primo giorno di guerra arrivò, al mio paese, uno stormo di «Stukas» che si esibì in una prova di forza attorno al campanile della nostra chiesa. Io rimasi impressionato dalle loro evoluzioni e dalle loro proverbiali «picchiate» che col loro rumore assordante e lacerante violentavano la tranquilla quiete delle nostre campagne; ero un ragazzo di soli 17 anni e, dentro di me, provavo paura e ammirazione al tempo stesso. Mio padre, invece, si fece triste e cupo in volto e abbozzò una semplice frase: «Siamo ancora in guerra!».
Col cuore in gola mi precipitai dal mio amico «Pineta» per leggere l'ennesimo bollettino di guerra e per scambiarci, reciprocamente, le nostre impressioni.
«Non ti preoccupare» biascicò lentamente «Pineto» tra un colpo di mar
tello e una rifilatina alle tomaie «sarà una guerra lampo». Tranquillizzato me ne tornai a casa, emozionato, un poco confuso ma confortato dalle prove di forza dei nostri alleati e dalle parole del mio vecchio amico.
Intanto il tempo passava: l'estate afosa e silente, ricca di una quiete che si assapora solo nelle nostre verdi pianure, mosse da dolci colline moreniche, lasciò presto il posto a un meraviglioso autunno colorato e rallegrato dai «linguaggi» di insetti e uccelli che si preparavano al freddo inverno incombente.
Io, nel frattempo, trascorrevo i miei giorni alternando il lavoro al gioco del pallone. Così passò anche l'inverno sotto un'ovattata coltre bianca di neve mentre le notizie di guerra che giungevano a Calcinato erano sempre più confortanti: le armate italo-tedesche dilagavano senza scampo per il nemico che sembrava, oramai, sul punto di crollare. Anche la Russia era stata invasa dalle forze dell'«Asse» che collezionava vittoria dopo vittoria: era il 22 giugno 1941!
I preparativi militari per invadere l'URSS erano iniziati fin dai primi mesi del 1941 e all'inizio delle ostilità le forze contrapposte erano circa le seguenti: i russi potevano schierare 134 divisioni di fanteria, 22 di cavalleria, 6 corazzate oltre a una riserva di 25 divisioni di fanteria, 1 divisione corazzata e 6 di cavalleria. Da parte tedesca potevano essere fronteggiate con 163 divisioni di fanteria, 17 divisioni corazzate e 10 motorizzate oltre a 35 divisioni alleate appartenenti a Ungheria, Romania e Slovacchia. A lato della Germania si schierava, inoltre, la Finlandia mentre il governo fascista approntava un corpo di spedizione (CSIR -3 divisioni di cui una motorizzata) al comando del generale Messe.
A Calcinato la mia vita trascorreva, intanto, abbastanza serenamente anche se il mio pensiero ricorreva quotidianamente al momento in cui anch'io sarei stato chiamato alle armi perché la guerra in atto non sembrava più tanto una «guerra lampo», come enfaticamente sempre sostenuto dal sistema propagandistico del Duce. Inoltre dalla primavera del '41 dovevo recarmi, ogni sabato, a fare esercitazioni «paramilitari» e anche questo, per noi giovani del paese, non era senz'altro un buon segno perché preludeva a un eventuale imminente reclutamento. Il «Regime», tra l'altro, era severissimo perché ricordo che non avendo potuto, una sola volta, assolvere all'obbligo succitato, dovetti, per punizione, recarmi la domenica successiva presso la locale caserma dei carabinieri a lavorare, a riparazione della mia mancanza, raccogliendo e spaccando legna.
Io e «Pineto» eravamo sempre più pessimisti e continuavamo a vederci e a parlare di cosa mi sarebbe aspettato, di quando mi avrebbero chiamato alle armi e, soprattutto, di che fine avrei fatto!
E così accadde quello che in seguito sarebbe risultato decisivo circa l'esito finale del secondo conflitto mondiale: il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono la base americana di Pearl Harbour e, di conseguenza, entrarono in lizza anche gli Stati Uniti! Oramai la guerra aveva veramente assunto proporzioni planetarie e le speranze di un rapido epilogo della stessa svanirono definitivamente. Ne dovette convenire anche il mio amico calzolaio che si era sempre dichiarato abbastanza ottimista sulla rapidità delle operazioni belliche e sulla vittoria finale delle forze dell'«Asse». Non solo ma, adesso, il buon «Pineto» cominciava a dubitare lui stesso della nostra vittoria sino ad arrivare a dirmi: «Adesso entrano in ballo gli americani e la guerra sarà persa». Tuttavia i nostri timori ce li dovevamo tenere per noi perché sarebbe stato estremamente pericoloso esternarli ad altri. In definitiva bisognava sempre e comunque dichiararsi ottimisti e fiduciosi in una nostra rapida vittoria finale!
Nel frattempo le truppe giapponesi invadevano la Tailandia e quindi Malesia e Birmania per muovere, successivamente, verso i confini della Cina. Il giorno di Natale 1941 si arrendeva anche la città di Hong Kong.
Con la cessazione della resistenza a Corregidor, l'intero arcipelago delle Filippine era in mano nipponica. La minaccia verso l'Australia era grave. Il generale MacArthur dichiarava che era assolutamente necessario rientrare in possesso delle Filippine e, per fare ciò, occorreva non perdere l'Australia dalla quale sarebbero dovute partire la controffensiva aerea e quella generale per la riconquista dell'«Arcipelago».
Io e «Pineto» siamo sempre più pessimisti e continuiamo, quasi quotidianamente, a parlare di cosa mi aspetterà, di quando chiameranno alle armi anche me e, soprattutto, che destino mi attenderà!
Intanto anche il '41 era trascorso e il terribile inverno di quell'anno stava cedendo il posto alle profumate e verdi primavere padane. Dalle mie parti la primavera è una vera e propria festa della natura: i campi si tingono di verde; gli alberi si ammantano di abiti colorati e, a volte, anche profumati; in cielo si rincorrono, in strani giochi e volteggi, gli uccelli che festeggiano la fine del gelo. A maggio, poi, la natura esplode nel suo massimo fulgore tanto che non ci si stancherebbe mai di guardarla e assaporarla. Purtroppo proprio il 13 maggio 1942 mi devo presentare alla visita militare dove vengo dichiarato «abile»: ho solamente diciannove anni ma le preoccupazioni e i pensieri di un adulto. Dopo appena quattro mesi, nel settembre '42, vengono chiamati alle armi quelli nati nei primi quattro mesi del 1923. Oramai sento che la mia ora è vicina e neanche più «Pineto» riesce, col suo ottimismo, a rendere serene le mie giornate.
Intanto la guerra sta divampando sempre di più e le forze dell'«Asse» trovano sempre più resistenza e difficoltà. Alla fine del '42 si hanno notizie anche dei primi «rovesci» militari di italiani, tedeschi e giapponesi.
Angelo Scalvini
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Enzo Luongo – 8 settembre 1943
Sono l'Ing. Enzo Luongo (classe 1921). Ex Ufficiale in S.P.E. presso l' 8° Reggimento di Artiglieria della Divisione Pasubio dopo aver fatto tutta la campagna di Russia con il C.S.I.R. e l' A.R.M.I.R durante la quale sono
stato decorato di Medaglia d' Argento al V.M. sul campo, all' 8 settembre 1943 a Verona ho combattuto contro i tedeschi che tentavano di impadronirsi della caserma dell' 8° Rgt. Art. e in questa occasione sono rimasto mutilato per la perdita di un occhio e altre gravi ferite e quindi iscritto all'Associazione.
Ho scritto un articolo che descrive la mia partecipazione agli avvenimenti verificatisi a Verona in quella data.
8 Settembre 1943
La data dell’8 settembre 1943 da oltre mezzo secolo rappresenta uno dei momenti più tragici e certo difficilmente interpretabili della nostra storia.
Di questo periodo confuso e caotico si sono dette tante cose (e non sempre positive ) delle nostre Forze Armate. Da parti, estremamente politicizzate, si è più volte cercato di sminuirne la capacità di reazione all’evento dell’8 settembre 1943.
E’ fuori dubbio che in quel momento sono mancate negli alti comandi militari idee chiare su una situazione strategica di per sé confusa e che mancarono il coordinamento e le informazioni che avrebbero dovuto tradursi in precise disposizioni ai vari reparti. E’ una pagina dolorosa determinata dall’imprevidenza e purtroppo anche dall’incapacità del governo allorquando ha indicato alle truppe di reagire con le armi ad ogni aggressione e di non aver esplicitamente indicato la Germania come nuovo nemico, cosa che avvenne solamente alla fine di ottobre del 1943.
Non si può però dire che da parte delle Forze Armate non vi sia stata una reazione e che questa reazione abbia dato in qualche modo, sicuramente determinante, l’avvio alla Resistenza Militare.
Il primo segnale della riscossa dovuta ai militari partì da Roma, da Porta S. Paolo oggi degnamente ricordata ogni anno per volere dell’ex
Presidente della Repubblica Ciampi che affermò anche che la data dell’8 settembre 1943 non fu una giornata di umiliazione e di vergogna per l’ Italia ma l’inizio del riscatto nazionale.
A Roma non si combattè solo a Porta S. Paolo ma anche in molte altre zone (Magliana, Porta Carpena, Porta S.Giovanni e altre) dove Fanti, Artiglieri , Carabinieri impugnarono le armi e si batterono eroicamente contro quelle truppe germaniche che, in esecuzione della “Operazione Student”, si erano mosse la mattina del 9 settembre in molte città con l’intento di occuparle.
La reazione delle Forze Armate Italiane non si è verificata solo a Roma ma anche in molte altre località dove i militari italiani si sono opposti fermamente con le armi alle truppe germaniche. Così in Sardegna, in Corsica, in Jugoslavia, in Albania (Divisione Perugia), a Cefalonia ( Divisione Acqui ), a Corfù e in diverse città italiane tra le quali Verona.
E proprio a Verona sono stato protagonista di questa resistenza.
Alla data dell’8 settembre1943, da pochi mesi rientrato dal fronte russo, prestavo servizio presso il Deposito dell’8° Rgt. Artiglieria “Pasubio” con il quale avevo partecipato a tutta la campagna di Russia con il C.S.I.R. e con l’ A.R.M.I.R. e durante la quale era stato decorato di medaglia d’Argento al V.M. sul campo.
Al Deposito si trovavano reparti di complementi in addestramento al Comando del Colonnello Spiazzi anch’egli reduce dalla campagna di Russia e pluridecorato. L’armamento era esclusivamente individuale ad eccezione di 8 pezzi da 75/27 necessari per l’addestramento.
Nel mese di agosto dello stesso anno il Comando del Deposito, dietro ordini superiori, predisponeva l’organizzazione di un batteria di formazione che avrebbe dovuto far fronte a “situazioni di emergenza”. Per i particolari compiti che avrebbe dovuto svolgere veniva formata con ufficiali e artiglieri reduci dalla campagna di Russia. Comandante della batteria fu designato il Capitano Molin e sottocomandante il sottoscritto, entrambi reduci da tutta la campagna e dalla ritirata, già decorati al V.M. La batteria eseguiva nel mese di agosto alcune esercitazioni di difesa della città in punti particolarmente importanti.
La sera dell’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, la batteria riceveva l’ordine di “allestire per la marcia” e tenersi pronta a muovere. Tutta la notte tra l’8 e il 9 settembre trascorreva in attesa di un ordine di movimento.
La mattina del 9, in seguito alle prime notizie di occupazione di alcune caserme da parte dei tedeschi, il Col. Spiazzi che non intendeva lasciare occupare la caserma dai tedeschi, dava ordine di disporre i reparti del Deposito a sua difesa. La maggior parte dei soldati armati di fucile e di qualche mitragliatrice veniva disposta sui bastioni che costituiscono il limite della caserma lungo la circonvallazione ovest, da dove era prevedibile l’arrivo dei reparti tedeschi.
La batteria di formazione veniva divisa in due sezioni che prendevano posizione dietro i due portoni (porta ferroviaria e porta carraia) situati verso l’anzidetta circonvallazione.
Verso le ore 9 del giorno 9 un reparto corazzato tedesco con fanteria trasportata sui carri avanzava lungo la circonvallazione fiancheggiante la caserma. Poco prima che la colonna raggiungesse la porta ferroviaria iniziava un nutrito scambio di fucileria tra i reparti schierati sui bastioni e i tedeschi trasportati sui carri. Quindi un carro armato tedesco si portava di fronte alla porta ferroviaria il cui portone era stato aperto per poter fare entrare in azione la sezione della batteria schierata a circa 100 mt. dal portone nel cortile interno.
Quale sottocomandante, alla notizia dell’arrivo dei tedeschi dalla parte della porta ferroviaria, mi sono prontamente portato presso la sezione colà schierata che era comandata da un giovane Sottotenente di complemento appena arrivato al deposito e ne assunsi il comando. Appena il carro tedesco fu davanti alla porta ordinai il fuoco con alzo zero.
Furono sparati diversi colpi e il carro colpito anche ai cingoli rimase immobilizzato, ma la sua potenza di fuoco ebbe in poco tempo il sopravvento e colpiva in pieno i pezzi della sezione causando la morte di alcuni serventi e ferendo la maggior parte degli altri artiglieri compreso il sottoscritto che rimase in seguito invalido per la perdita di un occhio e altre gravi ferite.
Fu un breve ed impari combattimento si può immaginare cosa potevano fare due pezzi da 75/27 di vecchia costruzione contro un moderno carro armato, ma il coraggio non è mancato.
Anche fra i soldati schierati sui bastioni ci furono intanto alcuni morti e feriti. La decisa azione da parte degli artiglieri dell’8° indusse i tedeschi a cessare il fuoco e a chiedere di parlamentare.
Il Col. Spiazzi che oltre a diverse decorazioni italiane ostentava anche una croce di ferro di 1° classe tedesca, riusciva a trattare a lungo con i tedeschi ed asserendo di disporre di gran numero di pezzi artiglieria, peraltro inesistenti, riusciva a ritardare l’occupazione della caserma e ottenere che i militari fossero lasciati liberi in caserma. Ciò ha consentito alla maggior parte di evitare la deportazione in Germania.
Per il valoroso comportamento degli artiglieri dell’ 8° il Colonnello Spiazzi ebbe l’onore delle armi come risulta dagli Atti dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito che nel capitolo “ Operazioni delle Unità Italiane nel settembre-ottobre 1943” nei fogli n°252 e 253 relativi alla difesa di Verona si esprimono testualmente:
“ Resistettero in particolare i cavalleggeri del 5° Rgt. e la guarnigione della Caserma dell’8° Rgt. Art. Pasubio che fu l’ultima a cedere e solo dopo l’intervento di carri armati per l’attacco finale. Il Colonnello Comandante ebbe l’onore delle armi e le truppe lasciate libere nella Caserma. Perdite italiane 10 morti e 23 feriti. Perdite tedesche 12 morti e 7 feriti “.
Per il fatto d’armi descritto sono stato decorato di Medaglia di Bronzo al V.M.
Anche a Verona ogni anno viene commemorato l’avvenimento presso la ex caserma dell’8° Rgt. Artiglieria “Pasubio” alla presenza delle Autorità militari e civili.
Tutti i militari che l’8 settembre 1943 hanno partecipato a questi fatti d’arma e a questa resistenza, nelle varie località in Italia e su altri fronti, hanno dimostrato con il loro comportamento il significato del senso dell’onore e della fedeltà al giuramento.
Enzo Luongo
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