Caporal Picen
Ricordiamo nostro padre, Celeste Nava nato a Sesto S. Giovanni (MI) il 12 Aprile 1897.
Arruolato e spedito al fronte il 21 settembre 1916, prima in servizio al 62° fanteria, poi trasferito al 67° Reggimento di Udine.
Veniva chiamato “caporal Picen” in quanto alto 1,57, poco piu’ del Re Vittorio Emanuele III.
Il 28 Agosto 1917 rimase ferito nella battaglia a San Gabriele, sul costone Veliki Koribak, zona del carso, (ove Gabriele D’Annunzio piantò la bandiera tricolore, prima della disfatta di Caporetto). Questi scontri bellici vennero riportati nella cronaca di guerra, sull’edizione del Corriere della Sera del 16 settembre 1917, e citati come i “quaranta minuti storici e tragici del conflitto”.
Raccontava infatti che comandava da caporale un piccolo plotone d’assalto, e quel giorno, sulle pietraie del San Gabriele, gli fu ordinato dal suo tenente di portarsi sul costone Veliki e tenerlo.
“Sembrava la fine del mondo” disse, “ cadevano bombe e granate da tutte le parti, anche dagli aerei”.
Lui rimase ferito e non riuscì a rialzarsi da terra. Passavano le pattuglie italiane portaferiti, ma nessuno lo voleva trasportare, dicevano che era spacciato.
Fu soccorso da una pattuglia inglese e portato nel loro ospedale a Gorizia, ove gli venne subito amputato il braccio destro che era a penzoloni, poi per il pericolo di cancrena gli venne amputata anche la gamba sinistra; riscontrarono presenze di schegge metalliche nella gamba destra, ma in quest’ultimo caso fortunatamente curarono le ferite con delle medicazioni.
Sua mamma (nonna Adelina) sfidò i pericoli della guerra andando a trovarlo all’ospedale militare (Gorizia era zona di combattimenti); si commosse nel vedere suo figlio cosi’ ridotto, e ringrazio’ il buon Dio di avergli salvato la vita, e gli inglesi che lo stavano assistendo. La sua giovane età (21 anni) e la sua forza di volontà gli permisero di sopravvivere.
Ci fu la famosa ritirata di Caporetto, non tutti i feriti riuscirono a fuggire, rimase con gli altri invalidi nell’ospedale inglese, arrivarono gli austriaci e li fecero prigionieri. Venne portato nel campo di concentramento di Mauthausen che divenne successivamente il triste lagher nazista.
La ritirata si fermò nelle valli dell’Isonzo, dal Grappa fino al Piave, dove i nostri italiani combatterono e vinsero.
Alla fine del conflitto, fu liberato e trasferito “con una tradotta”, da Mauthausen a Como, centro di accoglienza e smistamento dei superstiti.
Nel 1922 venne insignito con diversi attestati e decorazioni, croci al merito di guerra e medaglie di bronzo, (con effigie del Re Vittorio Emanuele III) e distintivo di ricompensa da portare sempre al petto.
Nonostante la sua mutilazione si inserì nella vita attiva, imparando a scrivere con la mano sinistra, e a camminare mediante un apparecchio ortopedico.
Viene assunto come centralinista telefonico in un’industria chimica milanese (la Carlo Erba) ove lavorò per circa quarant’anni.
Sposa nel 1929 una sublime donna che gli darà tre figli. Compagna fedele, paziente infermiera e accompagnatrice, dotata di altruismo e senso di abnegazione, instancabile. Sempre pronta ad aiutarlo per tutto quello che poteva servire ad alleviargli disagi e dolori.
Il loro viaggio di nozze lo fecero proprio nella zona del Carso ove rivisse e ricordò i luoghi della sua guerra.
Nel 1969, come altri fanti della guerra 15/18 fu nominato “Cavaliere di Vittorio Veneto”, fu orgoglioso di questo riconoscimento, così come di portare al petto la medaglia d’oro e la croce di guerra al merito.
Nel 1976, a causa delle schegge mai rimosse, si sono riaperte le ferite, causa di dolorose fistole sul moncone della gamba sinistra. E’ costretto su una carrozzina, non potendo piu’ portare l’apparecchio ortopedico.
Nel Dicembre del 1977 la moglie, stanca fisicamente, è mancata.
I tre figli, avuti durante la sua vita travagliata, nel frattempo lo avevano reso nonno; una delle figlie si prende l’incarico di assisterlo amorevolmente fino al 1985, quando dopo estenuanti sofferenze, raggiunge la sua amata consorte.
Noi figli ricordiamo che è riuscito a superare le difficoltà anche dell’ultimo conflitto bellico, riuscendo persino ad aiutare i partigiani nella zone delle montagne del varesotto, dove eramo sfollati.
Quando veniva chiamato per partecipare a qualche ricorrenza particolare ne andava orgoglioso, sempre fiero di aver servito la Patria con onore.
Conserviamo ancora in un piccolo astuccio d’argento con coccarda tricolore un frammento della scheggia estratta dalla coscia della gamba destra. Le mutilazioni gli hanno reso la vita molto difficile, ma nonostante questo non ha mai inveito contro la malasorte.
Ricordiamo con questo scritto i Cavalieri d’Italia e di Vittorio Veneto, a tutti questi valorosi senza macchia e senza paura vada la riconoscenza infinita degli italiani.
Conserviamone la memoria , in nome di un ideale, si sono sacrificati o sono rimasti invalidi per il resto della loro vita.
I figli Giuseppe, Costanza e Agnese